“Neve, cane, piede” di Claudio Morandini, originale variazione del racconto di montagna
Neve, cane, piede ci racconta di come ogni valle abbia un suo eremita. Anzi, come ci dice Claudio Morandini nel capitolo che chiude questa singolare novella di montagna: «Ogni valle ha racconti di uomini solitari che hanno scelto di stare proprio lassù». E di questo Morandini scrive: «Creature che paiono dotate del potere di passare dal nostro mondo a quell’altro, anzi di preferire proprio quel limite, quella zona franca tra i due mondi». La sua creatura, il protagonista della narrazione, si chiama Adelmo Farandola e vive isolato in un vallone delle Alpi. A fargli compagnia, un cane parlante che ha scelto Adelmo Farandola come padrone e che gli terrà compagnia per una lunga stagione, dalla nevicata che li costringe a seppellirsi in casa, fino ai momenti del disgelo – quando la natura darà segni, svelerà tracce, per poi confonderle di nuovo. Ci sono poi poche laconiche figure di un villaggio vicino e un misterioso guardacaccia che tiene d’occhio il nostro antieroe. Infine, le voci della natura e quelle di Adelmo Farandola, ovvero i ricordi, le immagini del passato che si mischiano con quelle del presente, e la parola di chi ha imparato «il conforto di parlare da solo» grazie ai «vantaggi della solitudine».
Il protagonista di Claudio Morandini è profondamente solo ad affrontare l’ambiente, il rigore del freddo, l’approvvigionamento, l’isolamento e la perdita di senno. Tutti questi elementi fanno di Neve, cane, piede un oggetto non classificabile, il ritratto di un uomo “di montagna” delicato e surreale, che occhieggia al grottesco, persino al comico.
Il romanzo è edito da Exòrma (che, oltre all’attività editoriale, organizza il “Festival della letteratura di viaggio” di Roma), una casa editrice con un catalogo che si distingue e che mescola narrativa di viaggio, romanzi, antropologia, fotografia.
Questo romanzo breve di Morandini ha una natura non immediatamente catturabile. È senz’altro, fra le altre cose, un punto di vista sulla letteratura di montagna (fra i molti autori italiani impossibile non nominare il suo campione, Mario Rigoni Stern), dal carattere sperimentale, che mantiene una scorrevolezza narrativa per certi versi “classica”. I capitoli sono brevi, la scrittura agile, con un buon ritmo interno. Neve, cane, piede si compone di pennellate leggere a volte e a volte più materiche, sempre con un buon senso dell’ironia e del paradosso. Massimo è il lavoro di reticenza; l’asciuttezza dei dialoghi è solo uno degli elementi: più in generale, c’è uno spiccato senso della composizione del paragrafo, del capitolo.
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Neve, cane, piede non è un romanzo di trama, ma di particolari. Su tutto, prevalgono: il sentimento della compassione, le radici corporee dell’animo umano, il legame con la montagna. E poi il tema più umano di tutti, quello della perdita di coscienza e della lucidità – in bilico tra il mondo dei sognatori e quello dei folli.
Come accade per gli elementi della natura, anche la novella compie una metamorfosi. Benché sia lontana dagli stilemi della letteratura fantastica, ospita degli elementi che a un certo punto si animano: le acque parlano, parla la neve, parlano i cani, i corvi, un corpo. La storia potrebbe assumere il valore di un’allegoria, ma non accade, la levità con cui Morandini si muove sul dorsale che separa i generi fa in modo che Neve, cane, piede resti un’esperienza narrativa del tutto originale.
La lettura procede rapida, la lingua è precisa e ritmata, le frasi si rincorrono. I pochi, sceltissimi dialoghi, seguono una partitura in levare. Un esempio su tutti:
«Il cane lo osserva, in attesa. – Che faccio, abbaio? – dice.
- No, fermo
- Io d’istinto abbaierei».
L’epilogo finale si intitola “Storia di questa storia” ed è battezzato da una citazione di Giuliano Scabia. Scabia, poeta e drammaturgo, è soprattutto uno degli innovatori del teatro italiano del secondo Novecento e ha sempre avuto una grande attenzione al rapporto fra lingua, azione teatrale e territorio. Di lui Claudio Morandini raccoglie una frase che apre l’ultima parte di questo piccolo viaggio e che dice: «Ci sono racconti silenziosi come sassi e racconti che parlano come alberi e piccoli animali».
Sempre nell’epilogo, Morandini svela l’origine di questo singolare lavoro e nomina alcune stelle polari che lo hanno guidato nella stesura: «(…) sono venute in soccorso la fantasia e soprattutto certe letture, fatta comodamente seduto, di vite scomode, di eroi lunatici, i romanzi di Charles-Ferdinand Ramuz, che nessuno sembra voler più leggere, o i folli picari di alpeggio dipinti in lingua romancia da Leo Tuor, da Oscar Peer e da Arno Camenisch, o i personaggi disturbati di Jaques Chessex».
C’è anche un film, nell’elenco di Morandini, ovvero L’età dell’oro di Charlie Chaplin. Accanto a questo, assecondando l’idea di un’assonanza poetica fra due variazioni, indicherei il più recente lavoro di Pietro Marcello, Bella e perduta, una fiaba che racconta l’epopea di un piccolo bufalo campano in cerca di un rifugio per le campagne d’Italia, accompagnato da un Pulcinella contemporaneo, senza forza e struggente.
Solo alla fine di Neve, cane, piede, capiamo quanto Claudio Morandini sia riuscito a rileggere un genere e contemporaneamente a dare forma a una sorta di “racconto del rimosso”. Rimosso che spesso (sia dall’alto di una cima solitaria, che a qualunque latitudine) ha le nostre stesse sembianze.
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