“Nessuna causa è persa”. Intervista a Cathy La Torre
Nessuna causa è persa (Mondadori, 2020) è l’eloquente titolo del primo libro di Cathy La Torre, che nei suoi primi quarant’anni di vita è già stata molte cose: attivista in vari movimenti che si occupano dei problemi legati all’identità di genere, politica (è stata per cinque anni consigliera comunale a Bologna per SEL), ma soprattutto avvocata specializzata in diritto antidiscriminatorio. Da anni si occupa infatti di tutti quei problemi legali che nascono in tema di discriminazioni di genere e omotransfobia, comprese le violenze e le diffamazioni in rete che purtroppo sembrano essere aumentate in modo esponenziale negli ultimi anni. Fondatrice di vari gruppi e siti specifici, Cathy La Torre, figlia di un padre siciliano e di una madre americana ma cresciuta a Bologna, ha riversato gran parte delle sue esperienze personali nel libro appena uscito Nessuna causa è persa, in cui ci racconta sia il percorso personale che l’ha condotta all’impegno attuale, sia tante storie di persone che subiscono ogni giorno vari tipi di discriminazione, o che cercano di far valere determinati diritti a fronte di una legislazione che spesso è ancora del tutto carente di fronte all’emergere di problemi mai presi in considerazione finora.
Nessuna causa è persa parla di cause vinte e di cause ancora da vincere, di persone che sono riuscite a ottenere giustizia e di chi, purtroppo, non è riuscito a superare traumi e violenze subite in nome di una presunta diversità rispetto a una altrettanto presunta normalità, in un linguaggio diretto che evita l’uso di termini troppo tecnici, giuridici o burocratici, come ha voluto sottolineare Cathy La Torre anche in questa intervista.
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In questo libro lei ha scelto di parlare ai lettori delle lotte per i diritti delle persone raccontando prima di tutto il suo percorso personale, prima come donna alla ricerca di un’identità e poi come avvocata. Quanto è stato per lei facile o difficile mettersi in gioco in un modo così diretto?
È stato complesso mettermi in gioco scrivendo un libro perché le questioni identitarie sono molto personali, ancora di più se consideriamo quelle legate al rapporto col nostro corpo. La mia è stata una sofferenza durata molti anni, che ha a che fare con una convivenza con un corpo che ho sempre ritenuto ingombrante rispetto all’idea che ho di me. Questo ha avuto un riflesso anche sulla mia vita professionale, perché io non ho scelto di occuparmi di diritti qualsiasi ma di quelli legati alla personalità e all’identità: dignità, reputazione, privacy, immagine, body shaming, revenge porn… Alla fine la mia identità e la mia professione sono così intrecciate che io mi sento metà umana e metà avvocata, senza una distinzione.
Questo però mi ha aiutato ad accompagnare molte persone alla ricerca della propria identità e mi ha permesso, facendo questo, di sanare anche la grande frattura tra me e il mio corpo. Ho scritto questo libro a quarant’anni, alla fine di un percorso che ha incluso anche della psicoterapia.
La gente pensa sempre che i personaggi pubblici siano quello che appaiono, ma spesso dietro c’è molto di più (a volte anche molto di meno). Nel mio caso direi che la mia immagine pubblica è molto vicina alla mia realtà, anche se questo presenta dei pro e dei contro: le persone apprezzano la mia spontaneità e il mio modo di approcciarmi ai temi, però allo stesso tempo, se colpiscono il mio personaggio, finiscono per colpire molto della mia persona e della mia identità, togliendomi qualche difesa. Io ho le spalle larghe e mi sento protetta, ma pensate cosa significa, ad esempio per una ragazzina di sedici anni, ricevere certi insulti sui social.
Pochi giorni fa la Camera ha dato la prima autorizzazione alla legge Zan contro l’omotransfobia, anche se la strada per l’approvazione finale sarà probabilmente ancora lunga e accidentata. Inizia a sentirsi un po’ più ottimista sulla possibilità reale di avere questa legge operativa in tempi non biblici?
In Italia purtroppo siamo costretti a dire come San Tommaso “se non vedo non credo”: sicuramente sono un po’ più ottimista, visto che è da quando avevo venticinque anni che si discute su questa legge. L’attuazione dipende chiaramente dalle vicissitudini del governo e dell’attuale maggioranza e questo è molto deprimente, perché si tratta di una legge di civiltà, che non dovrebbe riguardare i rapporti politici.
Cito dal suo libro: «Harvey Milk, il primo politico dichiaratamente gay nella storia, durante la sua campagna elettorale ripeteva: “Se non ti mobiliti per difendere i diritti di qualcuno che in quel momento ne è privato, quando poi intaccheranno i tuoi, nessuno si muoverà per te. E ti ritroverai solo.”» Perché è così difficile far comprendere questo concetto a chi spesso è omofobo ma vive a sua volta in condizioni di disagio?
È un concetto che è difficile da far comprendere un po’ in generale, perché spesso anche l’attivismo per i diritti politici e sociali si basa sul principio “mi batto quando una cosa mi tocca da vicino.” Più o meno, entriamo tutti in qualche associazione perché siamo toccati da un problema personale, ma così finiamo per restare chiusi in compartimenti stagni: posso essere un’attivista che si occupa dei migranti e magari fregarmene dei trans in povertà, battermi per i diritti LGBTQI e non vedere che nelle campagne, e non solo in quelle del Meridione, i braccianti muoiono di sfruttamento. Questo è un forte limite. Del resto lo stiamo vedendo anche di fronte all’epidemia: i negazionisti sono persone che non sono toccate direttamente dal Covid, salvo poi fare ammenda se vengono colpiti.
Ci sono stati per fortuna dei grandi pensatori che ci hanno insegnato a scendere in campo per TUTTE le battaglie, anche quelle che non ci riguardano. Io che sono sterile e lesbica mi sono sempre battuta per il diritto all’aborto, o per le condizioni di vita delle lavoratrici e dei lavoratori del sesso, anche se non faccio parte di queste categorie.
Ci sono nel libro due argomenti strettamente legati tra loro, che sono l’odio e i pregiudizi, perché i secondi tendono a fomentare il primo. Lei fornisce degli esempi molto validi su come, conoscendo da vicino le persone, si possano correggere i nostri pregiudizi, ma l’impressione, anche alla luce di ciò che accade intorno a noi in questi mesi e soprattutto leggendo ciò che le persone scrivono sui social, è che la strada per abbattere i pregiudizi sia veramente lunga. Da dove cominciare?
Abituarsi a vivere una vita senza giudizio e pregiudizio è un esercizio strettamente individuale, che va praticato per migliorare la qualità della nostra vita, e non si tratta di buonismo. Vivere una vita libera da pregiudizi mi ha permesso di fare degli incontri di cui altrimenti mi sarei privata, e che mi hanno arricchita come persona umana e come professionista.
A nessuno piace essere giudicato. Noi giudichiamo per liberarci, ma poi spesso finiamo per sentirci in colpa. Si possono certo esprimere delle opinioni sugli altri, ma il giudizio è un’altra cosa e presuppone una conoscenza della persona, mentre spesso viene dato a priori.
Si comincia da noi stessi: se non vogliamo essere giudicati non dobbiamo giudicare e se non vogliamo essere vittime di pregiudizi non dobbiamo averne nei confronti degli altri. Racconto anche questo nel mio libro.
Pensa che la sconfitta elettorale di Trump sia un buon passo avanti nella lotta contro chi, soprattutto in rete, è impegnato attivamente a diffondere l’odio?
Sicuramente la campagna elettorale, soprattutto ciò che è accaduto subito prima e subito dopo il voto, ci ha lasciato un grande insegnamento: una parte dell’opinione pubblica e della stampa, di fronte a una propaganda così spinta e falsa, si è sottratta. Non era mai accaduto che un presidente in carica venisse censurato in diretta tv a causa delle sue falsità e questo per me è stato un fatto rivoluzionario. Di sicuro ha portato molte persone ad augurarsi che un fatto del genere possa accadere anche nei loro paesi, e che la qualità del giornalismo possa migliorare. Molto spesso i giornalisti ignorano le fake news perché sanno che attirano il pubblico, ma questo è un fatto mortificante. Di fronte a Trump hanno preso posizione anche le grandi piattaforme e i gruppi editoriali e televisivi, cosa che non era mai accaduta prima. La censura non dovrebbe essere esercitata dai giornalisti, ma quello che è accaduto è stato un fatto molto importante.
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Lei chiude l’introduzione del libro con questa frase: «Perché non esistono cause perse, ma solo cause che devono ancora essere combattute.» Quale sarà la prossima causa che cercherà di combattere?
In questo momento ho due grandi crucci. Uno riguarda l’abilismo, cioè l’accesso delle persone disabili alle stesse opportunità di studio e magari anche di lavoro. Ci sono per esempio le persone afflitte dalla sindrome di Asperger che non hanno accesso all’università, solo il 13 % ci riesce, e si tratta di geni, il cui cervello funziona in maniera diversa dagli altri ma che avrebbero bisogno di test di accesso strutturati in modo diverso da quelli normali, adatti alle loro capacità cognitive. Poi c’è il tema dell’età: c’è una frattura tra giovani e meno giovani, con faide che si creano nel mondo del lavoro a causa della maggiore o minore digitalizzazione. Si creano spesso discriminazioni nei confronti dei meno giovani che hanno meno capacità digitali.
La più grande battaglia in cui però sono già impegnata da tre anni con un team di avvocati, informatici e pensatori è quella di rendere il diritto accessibile a tutti, sia dal punto di vista della comprensione che dal punto di vista economico. Si lavora a una digitalizzazione del diritto in modo tale che sia più fruibile per chiunque, a partire dalla comprensione. Se ha letto il mio libro, avrà notato che non contiene neanche una parola di “legalese”.
Nel 2021 penso che mi dedicherò solo a questo, anche per quanto riguarda il costo dell’assistenza legale, che spesso impedisce alla gente di chiedere aiuto a un avvocato.
Mi dicono che sono l’avvocato più seguito sui social, ma non sono più brava di altri: semplicemente, cerco di spiegare il diritto in una maniera comprensibile, anche se volendo sarei bravissima a renderlo incomprensibile come tutti coloro che lo fanno per fare di questo mestiere una casta. Tutti devono poter capire da soli le norme basilari del diritto.
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Per la prima foto, copyright: Sharon McCutcheon su Unsplash.
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