Nella tana del Bianconiglio: come i nuovi media hanno cambiato le nostre vite
Scoprire come i nuovi media hanno cambiato le nostre vite è l’obiettivo del saggio Nella tana del Bianconiglio di Rossano Baronciani, pubblicato dalla casa editrice Effequ. Baronciani, che insegna Etica della comunicazione e Cultura del progetto all’Accademia di Belle Arti di Urbino, Storia della pubblicità e Net Art all’Accademia di Belle Arti di Macerata, illustra con efficacia, ricchezza di esempi e di citazioni, la trasformazione antropologica dovuta all'avvento dei nuovi media.
Tra virtuale e realtà aumentata, tra Facebook e Twitter questa mutazione lenta e graduale, ma altrettanto inesorabile, opera una ridefinizione del mondo a suon di smartphone e tablet. Baronciani indaga, avvincendo il lettore, il fenomeno in atto, e passa in rassegna il nuovo modo con cui ci relazioniamo al prossimo con interrogativi che evocano anche un po’ di inquietudine: l’uomo sta attraversando un processo di smaterializzazione? Qual è la linea che separa l’organico dall’inorganico nel nostro corpo? E che ripercussioni ha tutto questo sull’agire etico? Oggi, dunque, proviamo a capre e a scoprire quanto sia profonda e quali sorprese sul fronte dei nuovi media ci riserva la tana del Bianconiglio.
Perché ha scelto questo titolo che evoca la dimensione fantastica e suggestiva di Lewis Carroll?
Quando Alice cade nella tana del Bianconiglio non avverte la sensazione di precipitare. Le sembra che tutto, intorno a lei, si stia muovendo con lentezza, come se fosse normale la condizione di cadere e, allo stesso tempo, di continuare a fare cose banali, come aprire un barattolo di marmellata di arance. Tant’è che Carroll impiega quasi tre pagine per descrivere la sua caduta. La mia idea è che quello che stiamo vivendo oggi assomigli a quella caduta, ovvero che manchi una vera consapevolezza di quanto queste nuove tecnologie della comunicazione stiamo modificando, non solo le nostre abitudini, ma la nostra identità, il nostro corpo, finanche la nostra idea di bene e di male. Quello che ci aspetta, a mio parere, è qualcosa che assomiglierà a quel paese delle meraviglie, a tratti incredibile e inquietante, che Alice esplora con infantile leggerezza, ma anche indifesa e allarmata.
Perché, secondo lei, si parla poco di mutazione digitale? Per non spaventare l'opinione pubblica o perché non c’è una coscienza in tal senso?
Credo che dipenda da un equivoco (non sempre in buona fede), che si continua a perpetrare con una certa costanza. È opinione diffusa infatti, spesso avvalorata anche da persone di tutto rispetto, che gli strumenti della comunicazione siano neutri e che in sostanza l’utilizzo dei massa media “dipenda un po’ dall'uso che ne facciamo”. I corollari a simili convinzioni ci descrivono un’idea di libertà che coincide con il telecomando, mentre giusto o sbagliato diventano concetti relativi al contenuto della comunicazione e non al modo in cui essa viene trasmessa. A mio avviso tutto questo è un grande errore, perché oggi la comunicazione è essenzialmente tecnologica e la tecnica non è mai neutra. La tecnica ha un linguaggio e se non lo conosciamo finiamo col diventarne succubi. Penso, ad esempio, a quanta televisione, video e audiovisivi guardiamo ogni giorno, senza avere un’adeguata conoscenza del montaggio, che è la grammatica con cui le immagini in movimento ci parlano. Rimaniamo fermi sul contenuto della comunicazione, sugli effetti e gli stimoli che ci ha trasmesso il messaggio, ma non riusciamo a capire il perché abbiamo appreso quella determinata informazione o le ragioni in base alle quali ci siamo più o meno emozionati. Marshall McLuhan ne Gli strumenti del comunicare scrisse che quando ci soffermiamo solo sul contenuto della comunicazione siamo come dei cani da guardia a cui i ladri hanno lanciato un pezzo di carne: ci avventiamo sul cibo e, nel frattempo, i malviventi ci svaligiano la casa.
Corpi smaterializzati e relazioni virtuali: dove ci condurranno tra dieci anni?
Tutte le volte che intrecciamo relazioni virtuali noi sappiamo bene che il nostro avatar ha maggiori vantaggi rispetto a noi. Il nostro avatar ha un maggiore controllo, può prendere tempo e interrompere un dialogo scomodo, con una scusa, in qualsiasi momento. Può rileggere quello che ci si è detto in una chat e, in definitiva, può godere del privilegio di non essere mai davvero in gioco con l’altro. Se consideriamo che il numero degli scambi virtuali tra le persone sta aumentando in modo esponenziale, è facile pensare che noi tutti saremo sempre più abili nei rapporti mediati, ma sempre meno capaci di sostenere lo sguardo dell’altro. Un film come Her di Spike Jonze ci racconta quanto l’uomo desideri amare, essere amato, compreso e soprattutto quanto voglia poter condividere la propria vita con qualcuno che lo capisca davvero e che ricambi i suoi pensieri e i suoi sentimenti, al punto di innamorarsi di un dispositivo elettronico. In questa prospettiva il corpo e la presenza sono delle variabili, non a caso il protagonista fa anche l’amore con il programma Samantha: non hanno un rapporto sessuale, è vero, ma non possiamo di certo negare che, su quello schermo che il regista lascia completamente buio, i due non si stiano davvero amando, in modo completo e profondo.
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Lei scrive «Guardiamo, ma vediamo sempre meno»: abbiamo perso la nostra capacità di attivare e gestire i cinque sensi nel tempo e nello spazio?
Le nuove tecnologie della comunicazione hanno assegnato alla vista il primato indiscusso per quanto concerne la nostra capacità di raggiungere un livello adeguato di conoscenza e di abilità. Infatti le neuroscienze e gli studi sui neuroni a specchio degli ultimi dieci anni ci stanno rivelando quanto apprendimento stia passando sempre più attraverso quella che gli scienziati chiamano la funzione pre-comunicativa. Ovvero noi sappiamo che i neuroni specchio si attivano prima che l’individuo ne sia cosciente e, in questo modo, permettono processi di imitazione e di comunicazione senza però una vera elaborazione cognitiva, di fatto senza mai giungere a una vera forma di conoscenza. È per questa ragione che scienziati come Boncinelli, Gallese e Rizzolatti sostengono la necessità di un approccio educativo multidisciplinare e olistico, perché apprendere è più complesso rispetto al semplice imitare. Il pericolo, in un mondo in cui si generano ogni giorno un numero colossale d’immagini, sta nell’affidarsi (forse inconsapevolmente) a una forma di sapere che non sente più il bisogno di scendere in profondità, e che si accontenta di logiche di superficie. Nel “ti vedo” che i protagonisti di Avatar di James Cameron si dicono per esprimere i loro sentimenti, viene da domandarsi se sia davvero una frase d'amore o se invece sia solo il punto d'arrivo di un'umanità che sembra conferire sempre più a un unico senso il compito di conoscere e amare, attribuendo alla vista la misura dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti.
Tra le tendenze più in voga del momento c’è quella dei “selfie”: che cosa succede alla nostra immagine? Siamo tutti diventati narcisi? Che cosa c’è dietro l'esigenza di vedere la nostra immagine riflessa nei monitor?
Lo scorso anno un importante articolo pubblicato dal «Time» ha definito gli adolescenti come «La generazione io io io», «The me me me generation», appunto. Io credo che non sia corretto parlare di narcisismo digitale mettendolo esclusivamente in relazione con le nuove generazioni, anche se è vero che sono soprattutto i giovani a utilizzare con maggiore assiduità strumenti quali smartphone e tablet. In realtà anche gli adulti sono molto coinvolti da questa nuova forma di narcisismo digitale. Sappiamo infatti che esistono due forme di narcisismo, una positiva che ci spinge ad amare noi stessi come premessa indispensabile per poter amare gli altri, ed un’altra negativa, in cui non amiamo tanto noi stessi, quanto piuttosto la nostra immagine, in questo caso come una figura riflessa e moltiplicata dai Social Network e dalla rete. Se per amare noi stessi dobbiamo conoscerci a fondo, fino a comprendere e accettare anche i nostri lati oscuri, per amare la nostra immagine ideale del sé sarà sufficiente diffondere dei nostri ritratti fotografici e rimanere in attesa, finché non giunga la gratificazione dei “mi piace” e dei “condividi”. Nei selfie, sia che siano stati fatti con amici oppure strappati a personaggi pseudo famosi, quello che conta non è tanto scattare una fotografia e immortalare un momento, quanto piuttosto cercare di raccogliere il consenso più ampio, affinché la nostra immagine possa diffondersi il più possibile. Non a caso una recente tendenza, partita dagli Stati Uniti, consiste nel fare un “selfie col morto”, ovvero ci si fotografa con persone morte da poco, sperando che la stravaganza e la radicalità dello scatto, più vicina al vilipendio di cadavere che all’eccentricità, possa incuriosire e attirare innumerevoli consensi. Quello che cerchiamo, in quegli autoscatti, non è tanto una gratificazione, come una sorta di rinforzo positivo verso noi stessi, quanto piuttosto un’ennesima infatuazione verso la nostra immagine.
Anche la cinematografia – se pensiamo a film che hanno la storia recente come Avatar o The Matrix – può dare una mano allo studio sulla mutazione digitale?
L'arte e il cinema, in particolare, hanno un punto di vista privilegiato per raccontarci i cambiamenti dei tempi. Spesso il punto di osservazione di chi fa ricerca nell'immaginario o, più semplicemente, utilizza forme più o meno sofisticate di intrattenimento, è “libero”, nel senso che può prendersi anche la libertà di rielaborare aspetti forse anche banali, ma che non sempre la massa riesce a cogliere nella valenza e funzione simbolica. Lungometraggi come Avatar o come The Matrix sono molto importanti perché segnano una mutata sensibilità del pubblico e della gente verso argomenti e tematiche che poi diventano di dominio pubblico. Un film come Disconnect (Rubin, 2012), che non è certo un capolavoro di profondità e di recitazione, ha avuto però l'indiscusso merito di porre in evidenza quanto sia ormai radicata nella nostra società la paura del cyberbullismo e dei pericoli nascosti nella rete. Parafrasando l'affermazione di Slavoj Žižek, quando dice che «il cinema è l'arte perversa per eccellenza, perché non ti dà quello che desideri, ma ti insegna a desiderare», potremmo sintetizzare che con il cinema non sapremo mai dove finisce lo sguardo e dove comincia l'oggetto e la narrazione che contempliamo, eppure grazie a esso riusciamo a cogliere con certezza di quale sostanza siano fatti gli oggetti del nostro desiderio, di quale trama i nostri sogni migliori ma anche gli incubi peggiori.
La notizia dell’uscita del sito eterni.me che consente di creare un avatar – una sorta di fantasma digitale – che lei ha lanciato sul suo sito è alquanto angosciante: una considerazione positiva a conclusione della nostra intervista?
Io penso che l’uomo ha sempre accolto i cambiamenti con uno spirito ambivalente, a tratti contraddittorio. Negli anni Settanta Umberto Eco ha sintetizzato questa tendenza e tensione profondamente umana nella contrapposizione tra “apocalittici e integrati”. Nel mio libro ho cercato con cura di non cadere in nessuna delle due seducenti sirene, privilegiando la scoperta di più efficaci punti di osservazione e cercando di tracciare dei sentieri che si offrissero come delle coordinate di senso, piuttosto che tentare di disegnare l’ennesima previsione o, peggio, profezia. Ciò non toglie che è sotto gli occhi di tutti il fatto che gli artefici di questa mutazione digitale siano delle aziende, ovvero dei soggetti che perseguono l’obiettivo di fare utili, non certo di preoccuparsi per le sorti progressive dell’umanità. Se qualcuno pensa che Page, Brin e Zuckerberg siano gli equivalenti moderni di Voltaire e di Rousseau si sta sbagliando di grosso. Basti pensare a come stati sovrani e sistemi di giustizia internazionali spesso non riescano neppure a far pagare le imposte ad aziende come Amazon o Google. Per natura personale cerco sempre di mettere a frutto l’insegnamento gramsciano, mediando tra il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà, poiché la ragione non può e non deve mai essere ottimista. In realtà noi stiamo già vivendo l’età post umana, la mutazione digitale è in corso e fenomeni come eterni.me rappresentano il desiderio, anche questo profondamente umano di poter assaporare la visione di una nuova soglia. Eppure come una sorta di anticorpo, ogni volta che il mio sguardo indugia troppo sul bicchiere “mezzo vuoto”, ripenso allo zio Vania de Il più grande uomo scimmia del Pleistocene (Roy Lewis, 1960). Il romanzo, ambientato nel Pleistocene, appunto, descrive una famiglia di primitivi che, una volta presa la decisione di scendere dagli alberi per cercare rifugio nelle grotte, di utilizzare il fuoco appena scoperto e soprattutto di camminare in modo eretto per meglio difendersi dagli animali, si sentì proferire dallo zio Vania il severo ammonimento: «Chissà di questo passo dove andremo a finire!».
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