Nell’incubo delle periferie romane
Con Sangue sporco (Corbaccio, 2019) Enrica Aragona racconta una storia ambientata in un’immaginaria borgata romana alla fine degli anni Settanta. Siamo infatti nel 1978 quando Antonio Guarino, accompagnato dalla moglie Paola, dalla figlia di primo letto Scilla e dalle piccole Monica e Caterina riesce finalmente a prendere possesso della tanto agognata casa popolare di cui aspettava da tempo l'assegnazione. La realtà però è tutt'altro che piacevole: la famiglia si ritrova in un appartamento all'interno di un ammasso di case denominate Isola Nuova, perse nel nulla dell'estrema periferia romana e prive di tutti i servizi essenziali. Non ci sono negozi, non ci sono scuole, per mesi non ci saranno nemmeno acqua, luce e gas. A Isola Nuova le case si riempiono di emarginati, tossici, sbandati e occupanti abusivi, perciò è presto evidente che il sogno della casa popolare è diventato in realtà un incubo.
Scilla cresce senza l'amore del padre, che forse vede in lei soprattutto il ricordo negativo della madre morta per overdose, e tollerata a fatica da Paola, la matrigna che le rovescia addosso tutte le sue frustrazioni. L'unica persona che sembra interessarsi a lei, sia pure in un modo bizzarro e altalenante, è Renata, una ragazzina appena più grande che proviene da una famiglia ancora più disastrata. Ma è possibile crescere tra edifici fatiscenti, siringhe abbandonate e rifiuti sparsi ovunque senza restare segnati? Si può riuscire a conquistarsi un progetto di vita migliore?
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Ne abbiamo parlato con Enrica Aragona.
Cosa l'ha spinta a scrivere questa storia?
Avevo bisogno di fare pace con una parte di me che ho combattuto per anni. Il giorno in cui ho capito che quella guerra non l’avrei mai vinta, ho iniziato a scrivere Sangue sporco.
Dai ringraziamenti in coda al romanzo si intuisce che lei è cresciuta nel quartiere che descrive così bene. Quanto ha pesato il coinvolgimento emotivo in fase di scrittura?
Isola Nuova non esiste. Esistono però quartieri simili, uno è proprio quello in cui sono cresciuta, un luogo che presenta molte analogie con l’Isola sia dal punto di vista strutturale sia da quello socioculturale. La partecipazione emotiva ha quindi giocato un ruolo fondamentale durante la stesura, ma non parlerei né di peso, né di difficoltà: scrivere Sangue sporco è stato catartico. Ci ho messo dentro tutta la rabbia per ciò che avevo sempre considerato sbagliato e ingiusto cercando di trasformarla in energia, affinché venisse fuori una storia capace di suscitare emozioni profonde. Spero di esserci riuscita.
Nel romanzo c'è chi si salva e chi si perde, pur crescendo nello stesso luogo. Cosa serve per salvarsi quando si è costretti a crescere in un quartiere desolato come quello che ci ha raccontato?
Non lo so. Forse solo fortuna. Gli anglosassoni direbbero che serve self-confidence, un’espressione che viene impropriamente tradotta con sicurezza di sé mentre io la riconduco alla consapevolezza di poter contare su se stessi. Credo ci sia una differenza, seppur sottile: la troppa sicurezza può generare la presunzione, e la presunzione può farti cadere. Sapere di poter contare su se stessi invece genera forza, ed è questo tipo di forza che aiuta a salvarsi. Non è qualcosa che s’impara, per questo parlo di fortuna: o ce l’hai, o non ce l’hai. E se ce l’hai è molto più facile che tu possa perderti. Io ce l’ho, e mi ritengo molto fortunata per questo.
Gli agglomerati di case costruite in fretta e furia nelle periferie, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, senza un progetto coerente e senza servizi per i suoi abitanti, sono stati uno dei mali peggiori delle nostre città. Si potrebbe fare ancora qualcosa per recuperare questi quartieri e renderli più vivibili, oppure è una partita persa in partenza?
Non ho le competenze per stabilire cosa dovrebbe o potrebbe essere fatto, posso dire che a mio parere il recupero dovrebbe partire dalla presenza più concreta delle istituzioni, non solo a carattere punitivo, ma soprattutto aggregativo. Ciò che condiziona di più gli abitanti di questi quartieri credo sia proprio il senso di diversità nell’accezione più negativa del termine, quel sentirsi cittadini di serie B dimenticati da tutto e da tutti, privati dei servizi primari, come se quella di non essere abbastanza abbienti da potersi permettere di vivere altrove sia una colpa da scontare. Sento dire spesso che le cose non cambieranno mai perché tanto è sempre stato così. Invece abbiamo diversi esempi che dimostrano il contrario, non è sempre stato così: molte aree di Roma un tempo disagiate e oggi riqualificate sono diventate fonte di guadagno per le amministrazioni.
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Quello delle periferie non è certo un problema solo di Roma, basta pensare alle rivolte scoppiate nelle banlieu parigine. Perché gli amministratori locali insistono ad abbellire i centri storici e sembrano non fare mai granché per i quartieri dove pure vive la percentuale più alta dei cittadini?
In questo senso tutto il mondo è paese. Ciò che è accaduto negli anni Cinquanta nelle banlieu francesi è analogo a quanto accaduto in molte città italiane più o meno nello stesso periodo. I piani urbanistici che puntano alla separazione creano isolamento, e l’isolamento crea disagio, che spesso sfocia in violenza. Sul perché i centri storici vengano curati e le periferie no, credo sia per un discorso prettamente economico: i centri storici sono i luoghi in cui si concentra il turismo, e il turismo porta introiti. Qui si torna al discorso sulla riqualificazione, ma sarebbe troppo lungo da affrontare.
Quali sono i suoi progetti futuri nell'ambito della scrittura?
Al momento nulla di definito. Vorrei continuare a scrivere ciò che mi fa stare bene nel modo in cui mi piacerebbe leggerlo.
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