Nel cuore povero degli Stati Uniti. “Heartland” di Sarah Smarsh
Heartland. Al cuore della povertà nel paese più ricco del mondo di Sarah Smarsh è da poco nelle librerie italiane nella traduzione di Federica Principi grazie alla casa editrice Black Coffee.
Il memoir della giornalista americana è il secondo titolo della nuova collana This Land di questa casa editrice indipendente. Black Coffee si occupa di portare in Italia dell’ottima letteratura nordamericana contemporanea per cui le mie aspettative prima di iniziare la lettura erano già piuttosto alte. Il libro di Smarsh tra l’altro ha un “curriculum” di tutto rispetto: oltre a posizionarsi tra i finalisti del prestigioso National Book Award nel 2018 ha avuto anche un estimatore d’eccezione. Barack Obama infatti lo ha collocato tra le sue letture preferite.
A lettura ultimata posso dire che le aspettative non sono state deluse, anzi comprendo la risonanza che questo memoir ha avuto in patria. Sarah Smash ha la capacità di mostrarci le sue origini, di portarci nella sua terra, il Kansas, e tra un racconto di vita vissuta e l’altro farci conoscere le contraddizioni e la vera essenza dell’America profonda.
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Se per il pubblico italiano il Kansas, a primo acchito evoca solo tornado, immense distese di grano e una ragazzina dalle scarpette rosse, in verità anche agli occhi della maggior parte dei suoi connazionali – l’autrice ce lo dice subito, nelle prime pagine del libro – è appena «campagna da sorvolare».
Smarsh allora mette tutta se stessa nel raccontarci questo pezzo d’America così bistrattato; com’è vivere nel posto più produttivo del Paese – quello che viene definito “il paniere del mondo” – e non beneficiarne. Com’è avere il destino segnato eppure lottare per cambiare le cose. O meglio, più che rivolgersi direttamente a noi lettori, lo fa indirizzando i suoi pensieri alla figlia mai nata, a un’idea della mente, alla quale la scrittrice ha sempre guardato come un faro nella notte:
«Non sono mai stata incinta, ma sono diventata madre molto giovane – di me stessa, di mio fratello minore, della mia giovane madre – e ciò mi ha richiesto un discreto livello di introspezione. Scavando sono arrivata così vicino all’essenza della vita da trovarci non solo il mio potere, ma anche il tuo spirito mai nato, e forse i due sono una cosa sola. Non so dirti come sia successo. Ma so dirti perché, per me, è stato necessario.»
L’autrice si racconta così, con una lucida analisi che oscilla tra memoir e reportage giornalistico. Mette insieme numeri, valutazioni di carattere economico, storico e sociale, ricordi d’infanzia, vecchie ferite, sentimenti contrastanti, vita vera. Dipinge la nuda e cruda realtà di un’America rurale e povera. Un’America “bianca” che di norma – e anche a causa di un razzismo intrinseco che è il peccato originale di questa nazione – non verrebbe mai in mente di accostare agli strati sociali più bassi a meno che la povertà non venga vista come una colpa:
«La percezione che le difficoltà di cui eravamo vittime fossero colpa nostra e l’accettazione di come andavano le cose: un ottimo carburante per l’industria americana, di cui beneficiavano solo i più ricchi. All’origine di quella vergogna, però, non c’era un peccato mio. C’era il disprezzo che il nostro Paese nutre per chiunque abbia bisogno di un aiuto economico, un disprezzo espresso perfino nelle sue leggi. La prova più lampante dello sdegno tutto americano verso chi soffre sta forse proprio nel suo atteggiamento verso i sussidi statali, che i politici e l’opinione pubblica considerano talmente disdicevoli da spingere anche la mia famiglia, che avrebbe avuto tutti i requisiti per ottenerli, a non chiederli mai.»
Ecco allora che l’aspetto orientato alla denuncia sociale, alla documentazione delle ingiustizie e delle contraddizioni si fa più forte. Smarsh, figlia e nipote di agricoltori del Kansas da cinque generazioni, sa di cosa parla. Quando poi l’autrice, sul finire del saggio afferma che «se sei povero in un Paese ricco, l’immaginario collettivo ti porta a credere che il fallimento economico sia anche il fallimento dell’anima», a questo punto del libro però non abbiamo dubbi. L’immaginario collettivo è stato già ampiamente smentito dalle parole che l’autrice riserva a quei “poveri” che ormai non sono più semplici numeri, statistiche, destini segnati, bensì semplicemente la sua famiglia.
Ciò che rende speciale questo saggio è l’aspetto umano, l’elemento personale che l’autrice non risparmia ai lettori.Quei luoghi, quella gente sono i suoi luoghi, la sua gente. C’è un cuore che pulsa, nel cuore degli Stati Uniti.È quello dell’autrice, che popola il suo Heartland di donne straordinarie, forti, risolute, a volte sbagliate, sicuramente offese dalla vita e dagli uomini, spesso dure e piene di contraddizioni. Tutte donne diventate madri giovanissime e legate a uomini violenti. Ragazze scappate via per le polverose strade del Midwest, su auto sgangherate e prole al seguito, senza nulla da perdere. Che hanno servito ai tavoli di tavole calde di frontiera, che hanno avuto qualche matrimonio in eccesso e qualche dipendenza di troppo. Donne imperfette dunque ma dignitosissime, come nonna Betty. Il ritratto che l’autrice ne dipinge è talmente vivido che sembra quasi di conoscerla e di volerle bene come fosse di famiglia. Donne difficili e rapporti a volte impossibili come quelli con la madre Jeannie, ancora troppo giovane per fare da madre alla piccola Sarah. Donne distrutte dal duro lavoro nei campi e da altri lavori sottopagati – e qui di nuovo la denuncia sociale – proprio perché donne. Gli uomini della famiglia dal canto loro si spaccano la schiena nei campi e alzano troppo il gomito. Tutti gli uomini del libro sono piuttosto violenti, veri e propri avanzi di galera, uomini per niente raccomandabili. Tutti tranne nonno Arnie e papà Nick. Quest’ultimo vittima di un avvelenamento sul lavoro e, come spesso accade a chi non ha i mezzi e la forza per far valere i propri diritti, dal grido inascoltato, schiacciato da un sistema più grande di lui.
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Sarah Smarsh con Heartland ci porta nel cuore dell’America rurale, tra povertà e ingiustizia sociale ma ci apre anche il suo cuore ed è un’esperienza che vale la pena fare.
Per la prima foto, copyright: Mizzu Cho su Pexels.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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