Narrare col corpo: il progetto "What I Be"
Le vie della narrazione sono, in teoria, infinite e, in pratica, stanno continuando a moltiplicarsi. Se poi ci allontaniamo, per un attimo, e neanche troppo, dalla dimensione più legata alla testualità, possiamo trovare interessanti esempi che riuniscono “verbalità”, figuratività, plasticità, riproducibilità tecnica.
È il caso del progetto What I Be, ideato e realizzato dal fotografo Steve Rosenfield. Il concetto che sta alla base di What I Be è tanto semplice quanto ricco di implicazioni e difficile da esprimere in una forma artistica. Ciascuno di noi, infatti, subisce l’influenza di modelli, modi di pensare, schemi, discorsi, retoriche. Nulla di scandaloso, in verità, almeno fino a quando una nostra eventuale contrarietà, o avversione, per alcuni di questi fattori di influenza, rischia di far sì che vengano formulati nei nostri confronti dei (pre)giudizi.
A cominciare dal 2010, dunque, Rosenfield ha iniziato a fotografare soggetti recanti scritte sul proprio corpo (viso e braccia, in particolare) legate alle proprie insicurezze e, più in generale, alla propria storia personale e “sociale”.
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Il risultato è una galleria di volti, e non solo, una galleria di storie, narrate attraverso keywords. E quale miglior modo per fare in modo che persone diventino documenti, e che la corporeità di un essere umano assuma le proprietà di denuncia (e di astrazione) di una testimonianza?
Ci sovviene un progetto altrettanto “sovversivo”, se non di più, della scrittrice Shelley Jackson, che con Skin invitava i partecipanti a questa azione artistica a farsi tatuare una parola di una storia, diventando così parte di una narrazione distribuita in cui solo chi è parte del racconto sa come va a finire.
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