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“Mr Gwyn” di Alessandro Baricco, lo sbrilluccichio post-neohegeliano e surmoderno

Mr Gwyn, Alessandro BariccoMr Gwyn di Alessandro Baricco (Feltrinelli, 2011) si inserisce a pieno titolo in un filone letterario che si potrebbe definire post-neohegeliano, nel quale la luce, che viene a rischiarare la notte in cui tutte le vacche sono nere, ha perso la sua finalità filosofica per trasformarsi in mero strumento di arredamento, in tocco di savoir faire, la cui funzione è eccedere in un luccichio pervertito che acceca proprio mentre illude di mostrare. Non è questione di andare oltre la lettera del testo; non si tratta di uscire fuor di metafora. È semplicemente lo sbrilluccichio di chi non ha dimestichezza con le ombre, di chi crede che compito della letteratura sia quello di intrattenere, allietare e distrarre, anche ricorrendo a fatti sorprendenti e curiosi, addobbati a festa grazie a una tecnica patinante.

È in questo senso che la definizione con cui Giulio Ferroni sintetizza la sua analisi critica della scrittura di Baricco in termini di barocchismo (Sul banco dei cattivi. A proposito di Baricco e di altri scrittori alla moda, Donzelli, 2006) appare sì divertente, ma ingiusta verso il barocco, cioè verso quella letteratura che, dal Seicento in poi, ha la propria caratteristica principale nella perizia con cui la luce e la ricchezza espressiva fanno da contraltare alle ombre e alla miseria umana:

 

 

Chi vuol veder, chi vuole
veder, amanti, al mezzodì più chiaro
le stelle in fronte al sole,
venga a mirar del’idolo mio caro
gli occhi, onde ’l sole ha scorno:
che portan notte altrui, mentre fan giorno.
(Giovan Battista Marino, Occhi, in Amori)

La compresenza di luci e ombre è ciò che ha permesso al barocco italiano di non impantanarsi nel ruolo di intrattenimento nobiliare, tenendo sempre presente che l’altra faccia della luce e del divertimento è la notte altrui. Giovan Battista Marino ha stabilito una cifra di originalità politica che permette di considerare eccessiva la condanna crociana, anche alla luce dei risvolti che tale gioco dell’alternanza ha regalato alla letteratura italiana. Basti pensare all’incipit de Il Gattopardo in cui, con un linguaggio elegante e raffinato, ai limiti della parodia pariniana, si introduce un clima da guerra di civiltà: le dee, che si ritraggono alle prime parole del rosario, sono come i nobili siciliani che fuggono dinanzi agli squilli delle trombe risorgimentali. Nell’atmosfera sognante e principesca della campagna siciliana, sopravvivono pensieri umbratili che s’annidano nelle increspature degli abiti di Angelica, nei silenzi di Don Fabrizio, nelle pause tra un valzer e l’altro. Non è un caso che, qualche anno dopo la pubblicazione de Il Gattopardo, anche Bulgakov riconoscerà il ruolo fondamentale delle ombre nel limitare il potere accecante della luce. Solo dove sussistono le ombre è possibile effettuare quelle distinzioni che sono alla base del vedere, come del percepire.

Baricco, invece, è la negazione di tali interstizi di buio, angoli che permettono alla verità di insinuarsi in momenti di interruzione, fratture dove il vuoto patinato lascerebbe spazio all’emergere dell’identificazione precisa e dettagliata della diversità: «Mentre camminava per Regent’s Park — lungo un viale che sempre sceglieva, tra i tanti — Jasper Gwin ebbe d’un tratto la limpida sensazione che quanto faceva ogni giorno per guadagnarsi da vivere non era più adatto a lui. Già altre volte lo aveva sfiorato quel pensiero, ma mai con simile pulizia e tanto garbo» (Alessandro Baricco, Mr Gwyn, pag. 9).
Limpidezza, pulizia e garbo: la letteratura ridotta a promozione di uno sbiancante per capi delicati, di quelli che eliminano anche il più piccolo residuo di macchia, al punto che qualsiasi maglione sembra nuovo come il primo giorno. Sembra, appunto. In realtà, l’invecchiamento delle fibre continua imperterrito il suo percorso naturale, mentre noi siamo illusi dall’utilizzo dello sbiancante. È questo l’effetto a cui perviene Baricco. La rinuncia al potere descrittivo della letteratura in funzione della letterarietà contribuisce a distrarre dal percorso di indebolimento delle strutture e delle funzioni dello scrivere. La disputa tra Baricco e Antonio Moresco in merito alla diversa connotazione della scrittura, rispettivamente come artigianato e come arte, risulta antiquata e fuorviante. La domanda dovrebbe, invece, essere un’altra: una letteratura, che non descrive più e che tutto uniforma sotto una luce artificiale, è ancora letteratura?

Il Regent’s Park citato da Baricco è identificabile solo per il nome, ma manca qualunque altro elemento che ci consenta di distinguerlo dal Parco della Reggia di Caserta, ad esempio.
L’inseguimento dell’esotico chic, come fine ultimo del gesto dello scrivere, si traduce in ostentazione di elementi che danno l’illusione della letteratura proprio in virtù del loro carattere depotenziato. Scrivere Regent’s Park non equivale ad aver creato un luogo o ad aver ambientato una scena; è tutt’al più un nonluogo, qualcosa che dona l’illusione di essere in un posto preciso, che, però, potrebbe essere tranquillamente un altro. «È chiaro, dunque, che con «nonluogo» stiamo indicando due realtà complementari non distinte: quegli spazi costituiti in rapporto a certi fini (trasporto, transito, commercio, tempo libero) e il rapporto che gli individui intrattengono con questi spazi» (Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Eléuthera, 2010, pag. 87).

Baricco rifugge dai barbari della modernità, ma la sua paura delle ombre lo costringe a creare libri glamour, luccicosi, in un regime di assoluta assenza di caratterizzazioni che richiederebbero impegno e attenzione per essere costruite, prima, e decifrate, poi. Di qui, anche la necessità del ricorso a continui messaggi pseudo-informativi — «Regent’s Park» (nonluogo), «lungo un viale che sempre sceglieva, tra tanti» (nondove), «Jasper Gwyn» (nonsoggetto), «Tornato a Londra, Jasper Gwyn trascorse i primi giorni a camminare per le strade della città in modo prolungato e ossessivo» (pag. 14; nonmodalità) —, attraverso i quali si cerca di dare l’illusione di aver costruito un luogo o un personaggio. «Ma i nonluoghi reali della surmodernità […] hanno questo di particolare: essi si definiscono anche attraverso le parole o i testi che ci propongono; insomma attraverso le loro modalità d’uso, che si esprimono a seconda dei casi in modo prescrittivo («mettersi in fila sulla destra»), proibitivo («vietato fumare») o informativo («state entrando nel Beaujolais») e che a volte ricorrono a ideogrammi più o meno espliciti e codificati (quelli del codice della strada o delle guide turistiche) e a volte alla lingua naturale» (Ibidem, pag. 88).

È per questo che Baricco non può essere definito uno scrittore barocco. Egli è surmoderno.

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