Morto Vittorio Sermonti. Qui la sua ultima intervista
Si è spento ieri all'ospedale Sandro Pertini di Roma, Vittorio Sermonti. Esperto di Dante, romanziere, saggista e poeta, Sermonti aveva da poco pubblicato un romanzo autobiografico, Se avessero, edito da Garzanti e finalista del Premio Strega 2016.
Qui di seguito proponiamo, per ricordarlo, l'ultima intervista rilasciata a Sul Romanzo e a cura di Morgan Palmas, proprio in occasione della sua partecipazione al Premio Strega.
Lei ha definito Se avessero (edito da Garzanti) la sua «opera ultima». Come dobbiamo intendere questa sua definizione? E perché ha optato per un romanzo autobiografico?
Il primo romanzetto, di genere strettamente autobiografico anche quello, lo ho pubblicato da Sansoni nel 1954, si chiamava La bambina Europa e aveva il carattere manifesto dell'«opera prima». Simmetricamente Se avessero, scritto all'estremità opposta del mio lavoro di scrittore, figuraspudoratamente autobiografico: ecco come, a quell'«opera prima» risponde quest'«opera ultima». Perché «autobiografia»? Che il protagonista sia un «io narrate» o un «egli narrato», chi scrive racconta sempre quel po' che sa dello stare al mondo, del suo singolarissimo stare al mondo. Perciò l'autobiografia, nelle sue mille declinazioni, è una categoria letteraria, cioè un tipo di finzione come un'altra: una finzione che finge di non essere una finzione (che poi, nei fatti, lo sia più o meno). Se avessi raccontato che mio nonno era lituano (nei fatti era di Palermo) il libro, voglio dire, non avrebbe figurato per il lettore meno «autobiografico». D'altra parte, per quanto autobiografico sia un tipo di scrittura, qualsiasi tipo di lettura lo è molto di più. E chi fa respirare un libro è sempre chi lo legge.
Prima dell’uscita del libro, ha dichiarato di averlo già scritto nel 1984 ma di aver continuato a lavorarci a lungo. Cosa l’ha spinta a rimandare la pubblicazione?
Non ricordo la dichiarazione di cui mi si parla. Può darsi che io abbia detto che la storia che racconto interrompe il suo tumultuoso e contorto flusso narrativo nel 1984 (allora forse nel 1983), mentre gli ultimi 40-45 anni dell'io narrante sono dati di scorcio, in corsivo, come una dichiarazione d'amore. In realtà, il libro l'ho cominciato a immaginare in Grecia, nell'estate del 2011, e a scrivere a Roma nell'autunno successivo. Comunque, scrivere 200 pagine in tre anni e passa la dice lunga sul mio modo di lavorare, per sovrapposizione e scavo.
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Nelle pagine iniziali, lei definisce «una fatica spaventosa oltre che verosimilmente inutile» il tentativo di fare immedesimare il lettore con il suo sé di allora. Cosa implica ciò sul piano della narrazione?
Implica la specificità di una narrazione fondata sui meticolosi arbitrii della memoria, e che non riesce a prendersi sul serio fino in fondo, appassionatamente.
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Dal punto di vista stilistico, il libro si caratterizza per il ricorso all’ipotassi: è un modo per tenere vivo il flusso dei ricordi? Quali altre ragioni si possono ravvisare in questa scelta?
Forse sì, l'ipotassi aiuta a tirare i ricordi per la coda. Ma io credo che il genere di sintassi che adotto tradisca anche il carattere vocale, teatrale della mia scrittura (di tutto quanto scrivo fin da ragazzo).
Al centro della narrazione c’è suo fratello, il primogenito, quello che, in genere, per i fratelli minori è un modello e un esempio. Cos’ha rappresentato per lei?
Un modello irraggiungibile, un eroe, quando ero piccolo. Poi, come racconto nel libro, il rapporto si è via via alterato, l'ammirazione ha lasciato il campo prima a una circostanziata diffidenza, poi a una estraneità radicale, e non solo di tipo ideologico... Una strana, ambigua, intima estraneità. In ogni caso, il giudizio dell'io che racconta è più che netto. Ma pochi rapporti che si intrecciano per tutto il corso della nostra vita sono riducibili al giudizio.
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Nel testo compaiono altri amici, nomi a lei cari e che hanno segnato la cultura e la letteratura italiane, da Giorgio Bassani e Goffredo Parise fino a Pier Paolo Pasolini. Cosa resta di queste amicizie?
Degli scrittori che lei ricorda e che naturalmente ha decrittato dalle iniziali, a me non resta che la tristezza del ricordo. Lei ne cita tre, e con ciascuno dei tre, a titolo di esempio, ho avuto un tipo di rapporto del tutto specifico, su cui potrei scrivere un raccontino che non ho scritto. Ma se lei mi parla di nomi «a me cari», avrà notato che di due soli amici ho trascritto il nome per intero (Cesare Garboli e Saverio Vertone), perché così indelebile e non negoziabile è in me il loro ricordo, che non pronunciare il nome per intero, mi sarebbe parso, più che una finzione, una menzogna.
Come si sta preparando alla serata finale del Premio Strega 2016?
Guardi: proprio col cuore in pace.
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