Mitologie a confronto, Fellini e le divinità greche
Sono passati quasi ventiquattro anni da quando Federico Fellini è morto. Un’assenza che pesa sempre di più non solo nel cinema italiano ma in quello mondiale. I film di Fellini, anche quelli meno riusciti, sono opere-mondo di straordinaria e avvincente profondità che operano un dialogo ininterrotto con l’inconscio umano.
La nuova casa editrice SEM Libri ha da poco pubblicato il libro L’Olimpo (Il racconto dei miti), un testo di Fellini di cui da molto tempo si parlava e che soltanto di recente è venuto alla luce. È una sorta di soggetto per un film tv diviso in due parti (sull’esempio di Novecento di Bernardo Bertolucci), che racconta la storia delle divinità greche. Il testo nasceva nel periodo successivo all’uscita de La città delle donne, film in cui il regista romagnolo metteva al centro naturalmente il mondo femminile, da sempre una delle ossessioni del suo immaginario. In questi mesi qualcuno ha messo in dubbio l’appartenenza dello scritto allo stesso cineasta, puntando su un’introduzione e un linguaggio estraneo al regista, oppure sottolineando alcune incongruenze nel testo (in una frase del libro si cita in terza persona il Fellini del Casanova). Poi l’altra questione: non c’è traccia dell’originale. Infatti, si tratta della fotocopia, neanche completa, di un dattiloscritto. Non sono un “fellinologo” in senso stretto, quindi non esprimerò un giudizio “filologico”. Ho visto quasi tutti i film di Fellini, ho letto la mitica biografia di Tullio Kezich e ancora in vita non mi perdevo le sue interviste sui giornali, oppure i siparietti in televisione con Mollica. A quel tempo però il suo cinema lo trovavo ancora distante, un pianeta sconosciuto rispetto ad alcuni amori che erano invece sbocciati con furore (uno per tutti, François Truffaut); forse perché da ragazzo rimanevo sconcertato da tutta l’architettura di cartapesta di cui il regista romagnolo si serviva per poter mettere in scena i suoi fantasmi, le sue ossessioni. I giovani hanno evidentemente bisogno di qualcosa di più immediato, di meno artificioso: a quell’età non c’è ancora l’assillo, l’urgenza di fare i conti con i ricordi della propria vita.
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Un giorno però comprai il vhs di 8 ½ (un reperto ormai archeologico in questi tempi digitalizzati). È un film che potrei rivedere ogni giorno, senza stancarmi mai (a patto che non venga “smembrato” dagli spot di una tv commerciale). Il finale, quel finale circense, è qualcosa che ogni essere umano dovrebbe avere negli occhi, perché fornisce una speranza inesauribile nella vita. Quelle immagini ti danno la gioia di vivere, di sbagliare, di fallire, ma di continuare ad andare fino alla fine (che non è mai la fine), perché siamo tutti riuniti, chi c’è e chi non c’è più, nel grande e misterioso carnevale dell’esistenza. L’Olimpo s’innesta certamente nell’ossessione felliniana per la donna, per il sesso, per l’incontro/scontro tra i sessi. È una specie di girotondo dionisiaco fatto di orge, falli enormi, accoppiamenti bestiali (nel vero senso della parola). E qui c’è un’altra contraddizione nell’autenticità dell’appartenenza esclusiva del testo al regista romagnolo, perché una delle curatrici del lascito artistico felliniano, la poetessa Rosita Copioli, nella postfazione al libro ricorda come Fellini fosse molto pudico nelle scene di sesso (quasi inesistenti nei suoi film, se non per vaghi accenni). Glielo confermò lui stesso: «Io non saprei girare una scena sessuale». Come avrebbe potuto realizzare questo progetto per la televisione, che, benché alla fine degli anni Settanta fosse abbastanza emancipata, non era certo in grado di “reggere” tutto l’ambaradan sessuale che il testo metteva largamente in scena? Magari il regista si sarà avvalso per la stesura di qualche collaboratore, di quelli più fidati, per mandare in giro il soggetto, nell’attesa, sempre rimandata, di metter mano prima o poi al famoso Il Viaggio di G. Mastorna, la cui mancata realizzazione rientra tra i miti felliniani?
Alla fine però tutte queste supposizioni, queste domande sono forse inutili e tendenziose. Perché più m’inoltravo nella lettura de L’Olimpo e più pensavo proprio a Fellini, alla sua avventura straordinaria nel mondo del cinema, alla sua fantasia, alle sue ossessioni. Come se questo testo fosse un altro fondale di cartapesta costruito per raccontare la sua biografia. C’è Afrodite che esce dall’acqua con scatenata e carnale vitalità e l’immagine non può non ricordare l’Anita Ekberg de La dolce vita:
«Gradualmente, lentamente, un sublime nudo femminile affiora dalla profondità azzurra e sulle prime pare che siano i testicoli stessi di Crono, trasfigurati in corolle di membra, che tornano a galla. Ma sono invece due meravigliose mammelle di donna, due interminabili cosce, un torrente di capelli sciolti, che non sono né biondi né bruni, ma prima sembravano bianchi come la neve, poi azzurri, poi fatti solamente di pura luce».
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Il personaggio di questi miti che trovo più somigliante, anzi che ho quasi associato a Fellini è un uomo: Teseo, l’uomo d’Atene, «bugiardo e calcolatore», che si assume il compito di liberare la città dal ricatto del Minotauro che ogni nove anni riceveva, per sacrificarli, sette bambini e sette bambine. Arianna, la figlia del Re Minosse e sorellastra del mostro, s’innamorerà di lui e gli donerà il famoso filo.
«Comincia, così, una delle più grandi imprese simboliche dei miti greci, perché Teseo che si addentra nelle astruse geometrie spaziali del Labirinto, per affrontare e annientare il Mistero che l’attende, compie la vicenda eroica dell’uomo che accetta il rischio di disperdersi nei meandri enigmatici del proprio inconscio, e soprattutto del collettivo subconscio, per andare ad uccidere, riconoscendoli, i mostri creati dalle sue stesse ataviche profondità».
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A me sembra una delle più belle descrizioni dell’arte felliniana, che si nutriva in egual misura di magia e psicologia junghiana. Un’arte che non può ritornare sul luogo del delitto (molto spesso Rimini), perché quei luoghi sono nella memoria, nella mente, nel cuore del regista; rivivere quei momenti sulla pellicola vuol dire semplicemente trasfigurarli con la sua smodata fantasia.
A Fellini, uno dei geni italiani del Novecento, negli ultimi anni della sua vita è stato subdolamente impedito di fare film. Non c’era più posto per lui nel cinema. Questo fa bene a ricordarlo Sergio Zavoli nell’introduzione al volume, quando cita le parole di Pupi Avati:
«Fellini – alla fine e per la prima volta – si sentiva tradito dai produttori. I “miti” non fanno cassa. Ma cosa dire di un Paese che si è privato dei film di un regista tra i più grandi, negandogli la possibilità di cercare, di crescere? Nessuno, del suo livello, ha mai creduto nello Stato imprenditore, ma lasciare inerte un artista di quella altezza resta una perdita grave per tutti».
Un vero e proprio crimine che l’Italia ha troppo spesso riservato ai suoi figli migliori.
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