Milano corrotta. “La città degli untori” di Corrado Stajano
Dopo una prima edizione Garzanti del 2009 e il Premio Bagutta nel 2010, torna in libreria, questa volta pubblicata dal Saggiatore nella collana La Cultura, La città degli untori, di Corrado Stajano.
Protagonista è Milano, «capitale morale dell’apologia», «priva di umani abbandoni», orbata di quello «spirito solidale» che un tempo l’aveva caratterizzata (Milàn col coeur in man), talmente degradata che ormai «la corruzione» si stende «come una rete da pesca messa ad asciugare al sole».
Dal punto di vista del genere letterario, l’opera si può definire un curioso ibrido tra la forma saggistica e quella narrativa.
Del trattato possiede l’impostazione ragionativa, l’impianto nettamente squadrato in capitoli e paragrafi, l’estremo rigore documentario e metodologico riconoscibile nella precisione delle annotazioni e degli indici.
Più tipicamente accostabili al racconto sono il tono immediato, discorsivo, ricco di elencazioni che talvolta colpiscono con la potenza di proiettili; la rilevanza della prima persona nella voce narrante, che perde e si ritrova nei luoghi della memoria della sua città.
Nella nota finale al testo, l’autore specifica, infatti, che il volume è «un viaggio nel tempo dentro il cuore di Milano»: si parte dal corridoio vicino all’aula 309 dell’Università degli Studi in via Festa del Perdono, 19 marzo 1980, ore 16.50.
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Guido Galli, giudice istruttore del Tribunale di Milano e professore di Criminologia alla Statale, viene ucciso da tre colpi di pistola. Gli assassini, componenti di una cellula armata dell’organizzazione extraparlamentare di estrema sinistra Prima Linea, si dileguano gridando “la bomba, la bomba”, dopo aver lanciato un fumogeno per confondere le tracce.
A partire da questo tragico evento si snoda la nutrita ricognizione di Corrado Stajano, che ricostruisce con dovizia di particolari la vita del magistrato, un «uomo tranquillo» ma del quale «non si capisce dove trovi il tempo per fare tutto ciò che fa»; un «modello di equilibrio», indefesso lavoratore di famiglia borghese bergamasca, dalla «biografia esemplare».
Negli anni euforici del miracolo economico e del consumismo, quando a contare è la mera apparenza, Guido Galli, «acceso […] dalla passione» per il proprio lavoro, inizia il praticantato in un grigio ufficetto del Palazzo di Giustizia; nel 1969 gli capita in sorte, come pubblico ministero, il caso del Cotonificio della Val di Susa, prospera azienda acquisita dall’industriale Giulio Riva alla fine degli anni Quaranta e condotta alla rovina nel 1969 dal figlio Felice, detto Felicino, impietosamente ritratto da Stajano come un «biondastro rampollo» incompetente, ebbro di «idee di grandezza», la «decalcomania del giovane ricco» amante della bella vita.
Dello stesso anno è il caso della bancarotta della SFI; Guido Galli collabora con Giorgio Ambrosoli: i due, coetanei, cercano di trovare una strada nella palude «melmosa» dell’illegalità, tentano di venire a capo della verità celata dietro un crac di 70 miliardi, in cui erano coinvolte anche diverse correnti della Democrazia Cristiana.
Senza dimenticare la granitica e, insieme, quotidiana figura di Guido Galli, nei capitoli successivi l’autore inizia a girovagare «nelle vie e nelle piazze della città alla confusa ricerca di storie più o meno omogenee di persone e di fatti di ogni epoca da legare alla vita perduta del giudice».
Il motore che lo spinge è di impronta iperletteraria: vengono citati i «disegni milanesi» dell’Adalgisa di Carlo Emilio Gadda; a compiere però un itinerario corposo e inconcluso è per esempio Alberto Savinio, che con Ascolto il tuo cuore, città traccia il primo grande ritratto autonomo della Milano moderna (nel Medioevo ci aveva già pensato Bonvesin de la Riva); ma non dobbiamo scordarci nemmeno del vagabondare di Renzo Tramaglino durante la rivolta del pane. Non a caso, tutta la parte centrale è dedicata alla memoria della Milano secentesca, con gli assalti ai forni e la grande pestilenza dalla quale, ove non proruppe morte, serpeggiò la psicosi pubblica che portò all’invenzione dell’atroce, leggendaria, mostruosa immagine dell’untore.
A partire dai riferimenti manzoniani ai Promessi sposi e alla Storia della colonna infame, Stajano trasporta la riflessione su un piano più universale, sostenendo che «gli untori, quelli veri, con l’unto nella pentola» sono «sempre sotto casa», nel Seicento come nel Duemila: l’anima nera di Milano è sempre viva ed è legata a doppio filo con gli ambienti della ‘ndrangheta e dell’alta politica.
Persistendo in una visione certamente realista ma comunque venata da un evidente pessimismo, l’autore prosegue sottolineando quanto Milano soffra per «un’apatica regressione antropologica, vittima del massacro della memoria, marchiata da una politica piatta che considera la cultura un additivo, con il compito di far spettacolo e di creare consenso politico».
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La conclusione, ironica e amara risposta ai cinguettii e agli squittii dei cantori della nuova Milano dell’efficienza e dell’eccellenza e alle infelici parole della – cito – «sindachessa» che ordinava di “sorridere di più”, è affidata alla voce di Dario Fo, che in una breve canzone aveva riassunto il malcontento del povero villano, costretto a ridere e stare allegro per evitare ai potenti (ricchi, prelati, re) irosi capricci e noiosi mal di pancia.
Per la prima foto, copyright: Alex Vasey su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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