Michelangelo, un mito legato alla solitudine. Intervista a Giulio Busi
Protagonista dell’ultimo lavoro di Giulio Busi, Michelangelo mito e solitudine del Rinascimento, edito da Mondadori, è Michelangelo Buonarroti, il celebre artista quattrocentesco.
Secondo di una famiglia composta da cinque figli, mostrò sin dall’infanzia la sua inclinazione artistica, ostacolata a più riprese dal padre che l’avrebbe voluto impiegato nei pubblici uffici, settore da cui provenivano i Buonarroti. Dopo l’apprendistato presso la bottega di Domenico Ghirlandaio, entrò nella cerchia dei Medici di Firenze presso cui iniziò la sua lunga ascesa che lo portò a ottenere importanti commissioni come l’esecuzione de La Pietà conservata nella Basilica di San Pietro nella Città del Vaticano, la realizzazione del celebre David collocato all’interno della Galleria dell’Accademia di Firenze, la ridipintura della volta della Cappella Sistina, impresa colossale a cui l’artista si dedicò per quattro anni, senza mai far trapelare troppa soddisfazione durante le fasi di lavoro.
La continua insicurezza lo accompagnerà per tutta la vita, ma anche questo aspetto fa di lui una figura emblematica che ancora oggi incuriosisce gli appassionati di arte e non solo.
Abbiamo rivolto alcune domande all'autore del testo, Giulio Busi, filologo italiano, docente di cultura ebraica alla Freie Universität di Berlino e uno dei maggiori esperti mondiali di ebraismo medievale e rinascimentale.
Il titolo stesso Michelangelo. Mito e solitudine sottolinea le due caratteristiche principali dell’artista. Per quale motivo Michelangelo preferiva la vita solitaria: una condizione voluta o vi si è ritrovato quasi subendola?
Il mito di Michelangelo è strettamente legato alla solitudine dell’uomo e dell’artista. È un’immagine alimentata da lui stesso, e confermata dai contemporanei. In tempi recenti, quest’idea è stata messa in discussione, e si è giustamente sottolineato come Michelangelo sia stato anche un abile imprenditore, capace di coinvolgere nei suoi progetti un largo numero di collaboratori. Ma una cosa è, credo, conoscere molte persone, e interagire nel lavoro con esse. Tutt’altra cosa è appartarsi, cercare l’isolamento, fuggire le compagnie. Dalla corrispondenza michelangiolesca emerge un personaggio schivo, sospettoso, malinconico, anche se capace, di tanto in tanto, di essere gioviale e di “distarsi”, magari assieme a persone d’estrazione relativamente modesta. Un caso a parte è il profondo legame che lo legò a Vittoria Colonna, marchesa di Pescara. Per lei, donna molto particolare, Michelangelo fece un’eccezione, e si lasciò probabilmente attrarre, oltre che dalla spiritualità della Colonna, anche dal suo passato di gran dama.
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Come lei stesso ha dichiarato nella Prefazione, il libro non vuole essere un trattato di storia dell’arte, ma la storia di una vita. Perché ha deciso di dedicare le sue ricerche proprio a Michelangelo e come è iniziato questo suo viaggio?
Il mio viaggio è iniziato nella Firenze di Lorenzo de’ Medici. Mentre scrivevo la mia biografia del Magnifico, ho cominciato a raccogliere materiale sulla giovinezza di Michelangelo. Lorenzo fu il suo primo, indimenticato protettore. E si può dire che l’opera e la vita di Michelangelo siano state grandemente influenzate dall’aria di raffinata creatività che si respirava nella cerchia laurenziana tra la fine degli anni Ottanta e i primissimi anni Novanta del Quattrocento. Tutti questi materiali sul primo Michelangelo, che non potevano entrare nel libro su Lorenzo de’ Medici, sono poi diventati il fondamento del nuovo libro, che dagli anni dell’apprendistato si estende a tutta la parabola michelangiolesca.
Una delle opere che giunge subito alla mente parlando di Michelangelo è il David. L’iter di realizzazione è da lei definito una “epopea”. Vuole raccontarci qualche aneddoto?
Ho definito il David un golem, riferendomi alle traversie del progetto, prima dell’intervento del Buonarroti. L’idea di cavare una statua colossale da un blocco unico di marmo era venuta, negli anni Sessanta del Quattrocento, allo scultore Agostino di Duccio, su commissione dell’Opera del Duomo di Firenze. Ma non si era riusciti ad andare oltre a un abbozzo, per giunta malfatto. Nel 1501 vien dato a Michelangelo un incarico difficilissimo da portare a termine. Riprendere quel marmo che sembrerebbe irrecuperabile, e trarne finalmente un’opera memorabile. A lui riesce l’impossibile. Il risultato, divenuto uno dei simboli di Firenze, è lì a testimoniare la maestria tecnica e la capacità di assecondare e, al tempo stesso, si direbbe, di ridurre la materia all’obbedienza. Vi fu chi non gradì quest’immagine di fierezza repubblicana, e il David fu bersaglio di una sassaiola, tanto che, al momento della sua installazione davanti a Palazzo Vecchio, si dovettero mettere guardie a proteggerlo.
Con Michelangelo cambia il ruolo dell’artista che inizia a differenziarsi da quello dell’artigiano. Possiamo dire che con Michelangelo inizia una nuova fase “più moderna” del ruolo degli artisti?
Michelangelo è considerato a ragione il primo artista moderno. Lavora per i committenti, certo, e innanzitutto per alcuni straordinari pontefici, ma riesce a mantenere un’autonomia senza precedenti. L’amico Sebastiano Luciani, meglio doto come Sebastiano del Piombo, lo rimprovera scherzosamente di incutere soggezione pensino ai papi. Questa indipendenza, oltre che alla sua bravura e al suo carattere indomabile, la deve anche all’estrazione sociale. Michelangelo è molto fiero di discendere da una famiglia di cittadini fiorentini, antica benché impoverita. Soprattutto nella vecchiaia, questa sua orgogliosa consapevolezza del proprio status diviene un modello. Non a caso, è l’unico artista vivente a cui Giorgio Vasari, il vero inventore della moderna storia dell’arte, dedichi una delle sue “Vite”.
Di Michelangelo incuriosiscono non solo i capolavori che ci ha lasciato, ma anche la vita caratterizzata da continue sfide con gli altri e con se stesso. Insicuro, generoso, meschino, prepotente, passionale. Un’esistenza lunga (morì a 88 anni) dedita alla scultura fino alla fine: pochi giorni prima di morire infatti lo ritroviamo a lavorare alla Pietà Rondanini, conservata al Castello Sforzesco di Milano. L'opera rientra nella poetica artistica di Michelangelo del “non finito”. C'è un legame tra questo suo modo di procedere e le vicende che accaddero nella sua vita?
Il non finito michelangiolesco, così celebre, è in realtà frutto di cause diverse. Da una parte, era sua abitudine accaparrarsi molti, troppi lavori, con la conseguenza di cominciarli senza poi riuscire a portarli a termine. Già i contemporanei vedevano tuttavia nelle sue opere incompiute delle straordinarie occasioni per cogliere la potenza della creazione mentre si sta rivelando, e le consideravano quasi manuali didattici, per capire come nasca una grande statua, come la forma affiori dalla materia. Poi c’è un non finito causato dall’insoddisfazione per il materiale, che lo spinge ad abbandonare il lavoro appena si manifesti un difetto del marmo. A questi vanno aggiunti i casi di non finito dovuti ai rovesci della fortuna, ai cambiamenti politici, alle revisioni iconografiche. Si pensi ai due cosiddetti “Schiavi” ora al Louvre, inizialmente destinati alla toma di Giulio II e poi accantonati, poiché non si accordavano più con il mutato piano dell’opera. Bellissimi sebbene (o proprio perché) incompiuti.
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Michelangelo fu anche poeta. Sappiamo che le sue Rime furono raccolte, corrette e pubblicate postume da un pronipote. Quali furono secondo lei gli scrittori suoi contemporanei da cui trasse ispirazione per la stesura dei componimenti?
Le grandi fonti d’ispirazione del Michelangelo poeta sono Petrarca e Dante. Tra gli autori suoi contemporanei, conosce e arieggia qua e là Lorenzo de’ Medici, Giovanni Pico della Mirandola, Girolamo Benivieni, tutti esponenti dell’ambiente intellettuale fiorentino in cui ha mosso i primi passi. Importante, su di un altro registro formale e di contenuti, è poi, oltre al Burchiello, Francesco Berni, con cui Michelangelo fu in rapporto personale. Già negli anni Trenta e Quaranta del Cinquecento, i suoi componimenti sono molto apprezzati, qualche madrigale viene messo in musica. Ma in vita non si arriverà mai a un’edizione. La stampa curata nel Seicento dal proniponte Michelangelo Buonarroti il Giovane è piena di rimaneggiamenti e di censure. Solo negli ultimi decenni, la grande intensità della vena poetica del Nostro è stata riscoperta e adeguatamente valorizzata.
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