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“Mi sa che fuori è primavera” – Incontro con Concita De Gregorio

“Mi sa che fuori è primavera” – Incontro con Concita De GregorioMi sa che fuori è primavera è l’ottavo libro di Concita De Gregorio, appena uscito da Feltrinelli, ispirato da un triste fatto di cronaca che molti di sicuro ricorderanno: nel gennaio 2011, Irina Lucidi, italiana residente in Svizzera, torna a casa e scopre che il marito da cui stava per divorziare, l’ingegnere Matthias Schepp, ha preso con sé le due figlie gemelle di sei anni, Alessia e Livia, ed è scomparso nel nulla. Imbarcatosi su un traghetto diretto in Corsica e poi tornato in Italia, Matthias si suicida cinque giorni dopo, buttandosi sotto un treno alla stazione ferroviaria di Cerignola, in Puglia, ma delle due bambine non c’è più traccia. «Non hanno sofferto, non le rivedrai mai più» recita l’ultimo messaggio lasciato alla ex moglie.

Da allora, Irina ha dovuto lottare contro un muro di omertà e indifferenza eretto contro di lei dalla famiglia Schepp e dalle autorità svizzere, decise a salvaguardare il buon nome del loro concittadino a spese dell’italiana rea di accusarlo. In seguito, un magistrato italiano ha accettato di aprire una nuova indagine, che però non ha dato finora alcun risultato: di Alessia e Livia non si sa, e probabilmente non si saprà mai, se il padre le ha eliminate fisicamente, seppellendole chissà dove, oppure se le ha affidate a persone incaricate di crescerle lontano dalla madre.

Qualche mese fa, Irina Lucidi si è rivolta a Concita De Gregorio perché raccontasse la sua storia. Il libro nato dal loro incontro,  Mi sa che fuori è primavera, risulta composto da molte parti diverse: il rapporto tra le due donne, le lettere indirizzate alle persone che avrebbero potuto contribuire alla ricerca delle sue figlie (la maestra, il giudice svizzero, la psicologa che aveva in cura Matthias), frammenti di ricordi passati e squarci sulla vita attuale di Irina, che oggi vive in Spagna con un nuovo compagno, e che ha fondato Missing Children Switzerland (a cui vanno i proventi del libro) per aiutare la ricerca di bambini scomparsi.

Non si tratta però di un reportage, ma di un romanzo, come ci ha spiegato l’autrice nel corso di un incontro che si è tenuto nella sede della casa editrice Feltrinelli.

 

La prima domanda riguarda proprio la struttura frammentaria del libro, dove la narrazione si alterna a lettere, sogni, ricordi: come ha lavorato su elementi così diversi tra loro?

Sono tutte invenzioni letterarie, questo lo dico subito perché ci sono state persone che mi hanno chiesto come mai Irina mi avesse messo a disposizione delle lettere riservate, che non avrebbero potuto essere pubblicate senza il consenso dei destinatari.

 

Questo si può immaginare facilmente, leggendo il contenuto delle lettere. In che modo, quindi, ha stabilito di strutturare il libro?

Tutto quello che c’è nel libro è stato scritto solo da me. Irina, un giorno, è venuta da me perché scrivessi la sua storia, cercando una terapia della parola, una forza capace di dare un senso agli eventi e rigenerarla. È questo che mi ha interessato, non i fatti accaduti. Irina avrebbe potuto raccontarmi anche una vicenda diversa, e il risultato non sarebbe cambiato: si trattava di mettere sulla carta un bisogno, come se le parole fossero quello che mancava alle tante terapie che Irina aveva fatto in questi anni. Non sapendo scrivere, Irina cercava qualcuno che lo facesse per lei, ponendole delle domande a cui avrebbe risposto per ricostruire tutto.

La vicenda reale, i dettagli dell’inchiesta restano in una dimensione del ricordo, così come la breve vita delle due bambine, perché non erano loro a interessarmi di più: non ho fatto un’inchiesta giornalistica, non sono ad esempio andata a intervistare i personaggi coinvolti.

Mi sono chiesta come potevo scrivere questa storia cercando di restituirle la sua anima profonda: è stato come incollare i pezzi di una tazzina rotta, mettendoli sul tavolo e provando a unirli nel modo giusto. Le lettere, ad esempio, servono per raccontare le vicende utilizzando ogni volta un tono diverso, perché a ogni persona ci si rivolge in modo differente. Spesso è possibile essere sinceri e nitidi con gli estranei più che con chi ci è vicino.

Poi ci sono gli elenchi del diario immaginario di Irina, una cosa che faccio anch’io: cosa mi rende felice, cosa mi piace di più. Una modalità adolescenziale, forse, ma che molti seguono e che può aiutare a sentirsi meglio.

La pagina più difficile forse è stata quella del ritratto del padre, perché per tutte le donne il rapporto col padre è difficile, e qui c’è dentro anche molto di me. Non volevo fare un bell’esercizio di stile, ma cercare di spiegare perché e come questa storia mi avesse colpita.

Il tema di fondo non è la vicenda di Irina, ma una domanda generale: come si esce da situazioni da cui sembra che non possano esserci vie d’uscita, come un lutto, la perdita di un amore o del lavoro, un fallimento? Come si rimedia alla perdita di due bambine?

Ci sono però delle parti in corsivo in cui sono io a parlare di me, in cui mi chiedo anche perché sto scrivendo questa storia.

“Mi sa che fuori è primavera” – Incontro con Concita De Gregorio

Dal libro ci viene la convinzione che il dolore isola, e che nel momento in cui vorresti maggior sostegno non hai nessuno pronto a dartelo. Quanto di questa convinzione viene dal suo incontro con Irina e quanto faceva parte già della sua vita?

Chiunque di noi passa dei periodi in cui si sente veramente solo nella vita, e io ho sperimentato che quanto più sei esposto alla visibilità, e vivi apparentemente in mezzo alle persone, tanto più ti rendi conto che in realtà puoi contare al massimo su tre di loro.

La mia vita è andata così: a un certo punto il mio lavoro ha preso una deviazione per cui mi sono trovata obbligata a essere sempre in mezzo al pubblico, ma al tempo stesso si è ristretta la dimensione delle mie relazioni effettive.

Irina mi somiglia e vi somiglia: ha una grande autonomia culturale, sociale ed economica, che la mette in una condizione di libertà, lavora in giro per il mondo, parla cinque lingue, eppure è rimasta perfettamente sola di fronte alla tragedia.

All’inizio pensavo che fosse russa, dal nome, e da come si presenta potrebbe essere un personaggio da romanzo russo anche se è di Ascoli Piceno. In Svizzera ha subito tutti i pregiudizi possibili, legati al suo ruolo di donna italiana, ricca e con un lavoro più importante di quello del marito, straniera e oltretutto colpevole di essere molto assente da casa e di aver affidato le figlie a una tata.

Io la capisco perché anch’io, che ho quattro figli, ho dovuto affidarli a una tata quand’erano piccoli per poter continuare a lavorare. Il rapporto tra una madre e la persona che cura i bambini in sua assenza non è mai facile, ma prima di tutto, per me, come per Irina, viene la necessità che i tuoi figli stiano bene. Se non posso colmare il loro bisogno d’affetto perché non posso essere fisicamente con loro, devo accettare che lo faccia qualcun altro. Ed è più importante che la persona che deve stare con i tuoi figli piaccia a loro che a te.

Quanto al marito, Irina si è anche sentita accusare di non essersi accorta che il marito fosse un uomo pericoloso per via delle sue manie ossessive. Ma sono tanti gli uomini con manie e ossessioni, che però non sono pericolosi per gli altri: mio marito è capace di fare una tragedia se qualcuno in casa non ha separato bene i rifiuti per la raccolta differenziata! Del resto, quando Irina ha parlato dei suoi dubbi alla psicologa da cui era in cura il marito, questa non li ha presi sul serio. Matthias aveva il padre con manie suicide, la Svizzera poi è un ambiente particolare in cui la vita è regolata dalle formalità, e dove la forma diventa sostanza si rivela più difficile distinguere la rigidità patologica dalla consuetudine. Irina aveva avvertito il pericolo, ma l’amore del marito per le figlie e le sue difficoltà l’avevano portata a giustificarlo sempre.

In fondo le donne hanno la tendenza a pensare sempre “io ti salverò” nei confronti dell’uomo che amano e non vedono il pericolo, o lo accettano perché pensano di poterlo governare.

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In questa storia mi hanno colpito molto i personaggi negativi. Com’è possibile che si comportino in modo così cattivo con una persona come Irina, che si rivolge sempre a loro in modo corretto, gentile ed educato?

Il principio di realtà in questa storia c’entra pochissimo. È un romanzo ispirato a un fatto di cronaca, dove quello che è accaduto non è l’elemento centrale, tant’è vero che io ho accantonato i fatti per raccontare una condizione esistenziale: ho mescolato cose vere e inventate, che però sono verosimili. Volevo descrivere come ci si sente quando si ha ragione, ma non si riesce a esporlo agli altri trovandosi di fronte a un potere superiore al proprio.

Ogni singola pagina non riporta un fatto in modo giornalistico, ma vuole descrivere una situazione di cui quasi tutti hanno fatto esperienza in qualche modo nella vita. Non è assolutamente un libro di auto-aiuto per genitori che hanno perso i figli.

Irina è stata sommersa da molte cose: insoddisfazione, inadeguatezza, senso di colpa, razzismo, tuttavia è riuscita a non chiudersi nel suo dolore e ad aprire nuovamente un varco, attraverso il quale un uomo ha potuto farsi strada, senza sapere chi lei fosse e quale vissuto avesse alle spalle.

“Mi sa che fuori è primavera” – Incontro con Concita De Gregorio

C’è una domanda che rimane sullo sfondo: come può una donna che ha perso le sue due figlie riuscire a innamorarsi di nuovo?

Chi la fa si ferma alla convenzione sociale di un lutto senza fine, che obbligherebbe chi subisce una perdita a rimanere legato per sempre a essa. La vita non finisce e il dolore non uccide. Se ti lasci sopraffare dal dolore tu non muori, ma devi decidere di ucciderti.

Se rimani chiuso nel tuo dolore non ti capiterà mai di incontrare una persona a cui interessi tu e non quello che ti è accaduto in precedenza. È l’amore che rimette insieme tutte le parti, come la colla per aggiustare la tazzina rotta.

Non ho mai chiesto a Irina cosa pensi davvero che sia successo alle sue figlie, ma mi sono chiesta come mi comporterei se una cosa del genere accadesse a me. In fondo noi non ci rendiamo conto del fatto che le nostre vite dipendono molto dalla situazione in cui veniamo collocati in partenza, e da quello che ci accade, più che da come siamo fatti: pensate alle persone rifugiate che ora stanno qui alla stazione di Milano e non hanno più niente, noi non abbiamo il merito di vivere qui e di essere quelli che siamo rispetto a loro. E non ci chiediamo mai come fanno a sopravvivere senza genitori, senza figli, senza una famiglia e una casa con tutte le loro cose, un posto dove tornare.

“Mi sa che fuori è primavera” – Incontro con Concita De Gregorio

Questo romanzo si può leggere anche come un thriller psicologico, perché contiene molti dettagli di quel genere, che affascinano il lettore.

Sono sempre una giornalista, perciò sono anche andata con Irina dal magistrato che ha riaperto l’inchiesta in Italia. Però ho mescolato la storia a molti aneddoti privati, forse insignificanti per la vicenda principale ma che mi hanno fatto immedesimare in Irina.

Capisco perfettamente la disapprovazione di coloro che considerano uno scandalo il suo nuovo amore, e che continuano a vederla solo come la madre delle bambine che ha perso.

A me chiedono spesso se ho davvero quattro figli, sottintendendo quel “ma come fa ad andare in giro lasciandoli a casa senza di lei” tipico di chi vede le donne solo chiuse in casa. Come direttrice dell’«Unità» andavo nelle scuole a incontrare i bambini insieme al mio vicedirettore. Molto spesso, alla fine, mi sentivo chiedere “ma come fa a fare il direttore se ha quattro bambini a casa?”. Io rispondevo che anche il mio vicedirettore, maschio, aveva tre figli a casa, ma non c’è niente da fare: si tratta di un imprinting duro a morire.

Siamo noi che dobbiamo reagire, quando ci dicono che “si è sempre fatto così”, perché se non ci fossero quelli che si ribellano il mondo sarebbe ancora all’età della pietra.

Mi sa che fuori è primavera, alla fine, vuole dire soprattutto questo: che una donna di quarant’anni ha il diritto di vivere un nuovo amore anche dopo essere stata colpita da una tragedia immensa, anche se per la mentalità corrente questo appare come uno scandalo.


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