“Mi chiamo Lucy Barton”, ovvero come maneggiare i ricordi secondo Elizabeth Strout
A otto anni dal romanzo che le valse il Pulitzer Olive Kitteridge (diventato poi fortunata serie tv, voluta da Frances McDorman) e dopo I ragazzi Burgess, Elizabeth Strout incanta con un romanzo dalla struttura solo apparentemente lineare. Con una buona dose di spietatezza, Mi chiamo Lucy Barton (edito da Einaudi nella traduzione di S. Basso) nasconde ripe scoscese, strapiombi. Tutti i dolorosi passaggi di una memoria che viene a galla.
La protagonista del romanzo, Lucy Barton, è nata in una provincia americana remota e rurale. A causa della sua estrema povertà è cresciuta come un’emarginata, in una famiglia abusante e rude, alloggiata in un misero garage fuori dal paese. Il suo passato è quello di una bambina tenuta lontano dagli altri (come del resto i suoi genitori, la sorella Vicky e il fratello), perché troppo stramba, troppo indigente. Per certi versi la sua è anche una storia americana di riscatto sociale, perché Lucy, grazie a buoni voti e all’incoraggiamento di un docente, riesce ad andare al college, a farsi una nuova vita, a trovare un compagno, ad avere due figlie e a coltivare il desiderio di diventare una scrittrice: tutte cose che la famiglia di origine non le perdonerà mai.
«Lei viene dal nulla», dice la suocera quando la presenta ai suoi ospiti. Ma Lucy non viene dal nulla, e a ricordarglielo sopraggiungono due accidenti: una degenza in ospedale e l’arrivo della madre ad accudirla.
Le due donne non si parlano da anni. Solo a poco a poco scopriamo il passato di privazioni e miseria di Lucy. Al tempo stesso, la donna ritrova il suo essere figlia attraverso la voce della madre. Parla, racconta è la sua richiesta alla madre. Ma ogni racconto è la punta di un iceberg, sotto c’è una memoria sommersa. La voce materna risveglia altre immagini, particolari, ricordi. Molti anni dopo, Lucy vorrà ritornarci per raccontarlo sulla pagina. Ed è da questo presente che parla al lettore.
Per cinque giorni e cinquenottimadre e figlia possono avere un punto di connessione, attraverso le storie della gente del paese. Queste vicende non sono il riferimento a un passato comune, ma uno schermo su cui proiettare tutto quello che non hanno condiviso nella casa, nei giorni dell’infanzia. La distanza dalle storie fallimentari degli altri, raccontate dalla madre, rende possibile per le due donne un “salto di crescita”: compare l’ironia. Una specie di affrancamento rispetto alle loro sventure e fallimenti. L’ironia è possibile solo in assenza di angoscia e disperazione. Per questo, Lucy Barton dice: «Non credo di aver mai avuto idea di che cosa fosse l’ironia, il che tendeva a spiazzare gli altri».
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Il primo romanzo in cui Elizabeth Strout scrive in prima persona parla della possibilità di maneggiare i propri ricordi. Non si tratta di scrittura autobiografica; è invece la messa al mondo della voce di un’altra donna, credibile, unica. Alcuni critici hanno sottolineato la presenza necessaria del silenzio, nella narrazione di Mi chiamo Lucy Barton. Questo romanzo rivela la fecondità del lavoro su una figura retorica per certi versi imprendibile, ovvero la reticenza. (Sull’importanza del non detto mette ordine un bellissimo saggio di Nicola Gardini, uscito lo scorso anno, che si intitola proprio La lacuna). In Mi chiamo Lucy Barton la lacuna non è solo un artificio retorico, richiama la struttura stessa dell’esperienza umana e della vita della mente.Il racconto non è guidato tanto dalla logica del frammento, bensì dallo strapiombo tra un frammento e l’altro. Per questo motivo Lucy Barton si trova, durante una seduta di psicoterapia, a non poter dire certi ricordi, e allora li scrive su un foglietto, li consegna alla terapeuta. Ma non al lettore.
Arrivare alla pagina senza pregiudizio. Essere spietata. Non preoccuparsi per la storia, perché se ne ha soltanto una da raccontare. Ecco alcune delle caratteristiche che deve avere uno scrittore secondo Sarah Payne, una romanziera con molta esperienza che compare come insegnante di scrittura di Lucy. Quell’unica storia da raccontare, per Lucy Barton, è quella di lei ricoverata in un ospedale e di sua madre seduta sul letto e di tutto quello che è stato prima e dopo.
C’è un legame che non muore con chi ci ha cresciuto, anche se ci ha fatto del male, forse proprio in virtù di questo dolore. La Strout, incapace di giudicare i propri personaggi, ma solo di narrare, ci ricorda che nessuno compie volontariamente il male. Ciononostante, l’eredità delle nostre radici getta sempre un’ombra sul presente, e non si può respingere a lungo. Mi chiamo Lucy Barton racconta infatti di come redenzione e affrancamento non siano del tutto possibili. Nessuno viene dal nulla e una parte del futuro è necessariamente alle spalle. Ma, allo stesso tempo, Elizabeth Strout scrive di come ogni vita possa diventare una vera arte di vivere, nei suoi molteplici, sorprendenti, significati. Un invito a guardare sempre, in maniera implacabile, come poi va avanti…
«[...] ci sono anche momenti in cui, all’improvviso, mentre percorro un marciapiedi assolato, o guardo la chioma di un albero piegata dal vento, o vedo il cielo di novembre calare sull’East River, mi sento invadere dalla consapevolezza di un buio talmente abissale che potrei urlare, e allora entro nel primo negozio di vestiti e mi metto a chiacchierare con una sconosciuta dei modelli di maglioncini appena arrivati. Deve essere il sistema che adottiamo quasi tutti per muoverci nel mondo, sapendo e non sapendo, infestati dai ricordi che non possono assolutamente essere veri. Eppure, quando vedo gli altri incedere sicuri per la strada, come se non conoscessero per niente la paura, mi accorgo che non so cos’hanno dentro. La vita sembra spesso fatta di ipotesi».
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