“Memoriale del convento” di Josè Saramago, tra sogno e desiderio
Memoriale del convento (Feltrinelli, traduzione di R. Desti e C. Radulet) è uno dei più celebri romanzi dello scrittore portoghese Josè Saramago, insignito di Premio Nobel nel 1998. Pubblicata nel 1982, quest’opera ha contribuito in maniera decisiva all’affermazione a livello internazionale dell’autore, riconosciuto ora come una delle figure letterarie più importanti del nostro tempo.
Come avverte il titolo, Memoriale del convento è un romanzo storico. Tutta la narrazione si basa sull’autentica costruzione del convento di Mafra, avvenuta tra il 1713 e il 1730 per volontà di Giovanni V re di Portogallo. Il monarca aveva fatto voto di erigere un’opera monumentale qualora il cielo gli avesse concesso un erede al trono. Fu così che la nascita tanto agognata del figlio maschio, generò a sua volta la nascita di quel che doveva essere “lo stupore dei secoli”, un complesso in grado di competere con San Pietro o Versailles.
Da questa vicenda di fondo, che Saramago riporta con assoluta precisione e documentata coerenza, si stagliano le fittizie esistenze dei due protagonisti principali: Baltasar Mateus Sette-Soli, ex soldato monco di una mano, e Blimunda Sette-Lune, donna capace di vedere attraverso la materia, quando a digiuno.
Altra figura fondamentale – anch’egli personaggio storico – è Padre Bartolomeu Lourenço de Gusmão, il Volatore, il quale progetta di costruire, servendosi di conoscenze scientifiche e alchemiche, un uccello meccanico che riesca a volare. Il romanzo si snoda attorno a questi due nuclei, la travagliata e dispendiosa costruzione del Convento di Mafra e la progettazione della macchina chiamata “uccellaccio”.
L’opera di Saramago, come sempre, è piena di mondo. Il primo Settecento – dominato dagli auto da fè, dai roghi dell’Inquisizione, dagli intrighi della casa reale e dalla povertà disarmante del popolo – entra di forza nelle pagine del libro, al punto da renderle talvolta soffocanti. Abituati come siamo oggi a frasi fulminee, descrizioni istantanee della durata di un tweet, le ripetute digressioni descrittive, in cui il narratore si prende tutto il tempo di illustrare ogni dettaglio della quotidianità, possono allentare l’attenzione del lettore. Eppure hanno una profonda utilità, al di là del carattere meramente rappresentativo. Contribuiscono a slanciare i due protagonisti, ingabbiati in questa dimensione. Le parole hanno peso materico, sono materia, alla materia si riferiscono.
Come dice Gonçalo M. Tavares, le parole che più perdurano nel tempo sono le parole che rappresentano le materie più resistenti; gli aggettivi si perdono, la pietra del Convento di Mafra rimane. È in questa pietra, in questa terra melmosa in cui affondano le ruote delle carrozze, che si delineano Baltasar e Blimunda, i quali rispondono alle stesse leggi fisiche del loro tempo.
Come vuole il post-moderno, nel libro cade ogni possibile metafisica in favore della materia. Cadono gli dei, cadono gli ideali, rimane il sordido tonfo dell’impatto sul mondo, a tratti grottesco. L’ironia si allarga tra le pagine come un virus latente, pronta a colpire chiunque tenti di tirare in ballo un qualche concetto che eluda del tutto la pesantezza della vita. Ma non intacca i due protagonisti, ai quali il narratore concede sempre, nella loro miseria, assoluta dignità. Anzi, a loro come al padre, concede il velleitario desiderio di volare. In un mondo così materializzato che rade al suolo ogni ipotetica astrazione con l’arma dell’ironia, come può coesistere l’aspirazione metafisica per il volo? Come può un sogno sgangherato, molto più ridicolo di una normale e quotidiana preghiera, ridare dignità anziché derisione ai personaggi, abitanti di Settecento tanto religioso? La chiave d’accesso all’enigma è sempre la vita intesa come clinamen, movimento di atomi. Il loro sogno non rifugge il mondo: è costruito su di esso e con la sua materia.
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Baltasar passa anni a battere ferri in un casolare semi-abbandonato. Il sogno è fatto di ferro battuto e travi incrociate, ed è alimentato dal cibo che procura Blimunda ogni giorno, a fatica. Il volo non nasce come rifiuto, ma come reazione all’esistenza. La «leggerezza come reazione al peso del vivere», direbbe Calvino. La reazione implica un’interazione: si passa attraverso la materia per alleggerirla. Si passa attraverso le difficoltà della vita per capirne la consistenza. Ecco perché l’amore tra Baltasar e Blimunda è particolarmente vivo e toccante. Diremmo che è fatto della stessa sostanza dei loro sogni, cioè di ferro e travi. È un amore che si scontra con l’incalzare dei giorni e delle loro necessità, dalla fame al sesso, al sonno, senza rifuggirle. Per niente platonico, dal momento in cui non elude le fatiche, ma su di esse affonda le sue radici. Tenuto assieme dalla consapevolezza di essere gettati in una determinata contingenza, e dalla volontà che ne consegue – come reazione – di orientarla in un sogno, creando così un senso. Il Senso non risiede immanente in un punto univoco al di fuori della vita – come in un Dio al quale la religione affida l’esistenza, guadagnandosi la derisione del narratore –, bensì si costruisce nella vita, con quel che si trova a disposizione nella sostanza dei giorni.
Non è un caso che, una volta terminata l’elaborazione dell’uccellaccio, Baltasar chieda a Padre Bartolomeu: «che ne sarà di noi?».
La conclusione di un sogno, il compimento di una volontà, la soddisfazione del desiderio provoca una vertiginosa caduta di senso. Che ne sarà di noi? Serve un sogno per generare la scintilla del desiderio, l’ingranaggio della volontà e, a sua volta, del Senso. È in un sogno comune, al quale Baltasar e Blimunda hanno deciso di affidare le loro vite – che li lega per la vita a Padre Bartolomeu – che si fonda e si salda anche il loro amore.
Memoriale del convento è la storia di due sogni e del modo in cui prendono forma: quello del re Giovanni e quello di Padre Bartolomeu. Il sogno del re, mosso, oltre che da un voto, da una vanitosa aspirazione emulatrice, comporta il lavoro massacrante di migliaia di uomini esterni al desiderio; la volontà del re è un bagno di sangue che non sporca i suoi raffinati drappeggi. Carica tutto il peso della sua volontà sulle schiene ricurve di un popolo affamato, che agisce come motore essenziale del desiderio, ma senza desidero. La traiettoria del sogno è così perversa: la narcisistica leggerezza di un’idea si scarica in rigida costrizione che, più che voto del cielo, al popolo pare grave una condanna.
Baltasar e Blimunda compartecipano al sogno di Padre Bartolomeu diventandone gli attivi fautori, vivendolo in tutti i suoi aspetti. Diventano il sogno stesso nel momento in cui gli indirizzano la loro vita. La forbice si dilata, le differenze si concretizzano: nel sogno del re il desiderio si tramuta in pulsione di morte fine a sé stessa, in quello “volante” il desiderio si fa fonte inesauribile di volontà che sopravvive alla morte – e questo lo si attesta nell’ultimissima riga del romanzo, che non vogliamo svelare.
Credo che tutta l’opera non sia che un sondare l’inconsistente terreno della friabile esistenza umana, un campo senza forma se non quella che gli si vuole dare. «Siamo un grido nella notte», direbbe Recalcati. Saramago definisce Dio come «il silenzio dell’universo e l’essere umano il grido che dà senso a tale silenzio». Forse l’amore non è che un urlare assieme, volontà di sintonizzare le voci su un certo tono e cercare poi una melodia. Chi cerca subito e soltanto la melodia, finisce per gridare e basta – vedi il sogno del re.
Ecco perché Memoriale del convento, che la traduttrice italiana Rita Desti definisce come «epopea narrata in una densissima prosa parlata con una maliziosa mescolanza di livello alto e livello popolare», è un insieme di stonature e intonazioni che ne fanno una canzone dalle mille arie.
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