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Meglio sarebbe non esser mai nati. “Scomparsa” di Joyce Carol Oates

Meglio sarebbe non esser mai nati. “Scomparsa” di Joyce Carol Oates“Meglio non esser mai nati”. Così risponde Sileno a re Mida quando gli viene chiesto qual è la cosa più desiderabile, per sé, al mondo. Da Sofocle ai grandi tragici greci, dall’Ecclesiaste a Plutarco, da Kierkegaard a Simone Weil fino a Schopenhauer la celebre massima esprime, più che un’estrema dichiarazione di pessimismo metafisico, il vivere come un differimento della morte, il sapere e l’intelligenza come sofferenza e solitudine tra/con gli altri che desiderano una felicità ch’è solamente liberazione dal dolore, dal bisogno e dalla noia. In questa prospettiva senza uscite meglio essere niente, rifluire nel nulla. Ancor giovani e inesperte, Juliet e Cressida si burlano di una manciata di filosofi brontoloni e inaciditi dalle loro cupe vicende esistenziali. Le due sorelle sono il volano del nuovo romanzo di Joyce Carol Oates, Scomparsa, uscito a ottobre per Mondadori con l’accurata traduzione di Giuseppe Costigliola; mai come in questo romanzo, per il lettore, soffermarsi sulle dinamiche del rapporto che si instaura tra Juliet, la più grande, bella, cercata e amata da tutti, e Cressida, la più giovane e bruttina, complicata e ipersensibile, è illuminante per comprendere quanto saranno inestricabili i nodi del loro percorso esistenziale, le conseguenze delle loro azioni e sentimenti e il loro ricadere, come in un effetto domino, sulla rete dei personaggi che le circondano.

I Mayfield sono una delle famiglie più in vista di Carthage, una cittadina all’estremo nord dello stato di New York, nella regione degli Adirondack, al confine col Canada. Zeno Mayfield è stato un buon sindaco, affabile e onesto, padre integerrimo e adorato dalle due figlie, fedele a sua moglie Arlette, impegnatissima nel volontariato e nel mondo dell’associazionismo. Juliet è una ragazza dolce e mite, una brava insegnante, devota al suo boyfriend, il giovane Brett Kincaid, il tipico ragazzo americano di sani principi, bello come un Tom Cruise in Top Gun. Brett decide di arruolarsi volontario nell’esercito all’indomani dell’attentato alle Torri gemelle, e parte per l’Iraq. A niente valgono i tentativi dei Mayfield (che stanno per diventare la sua nuova famiglia) di dissuaderlo dall’impresa. Il giovane verrà rimpatriato con una medaglia al valore, devastato nel fisico e nella psiche. In Iraq ha compiuto azioni terribili ed è stato testimone di eventi orribili, e sente di non meritare più l’amore incondizionato di Juliet. La coppia rompe così il loro fidanzamento. La sera del 9 luglio del 2005 Cressida esce per trascorrere la serata con un’amica. Al ritorno, verso mezzanotte, cerca Brett in un pub presso il lungolago, e lo trova in compagnia di amici. La figlia più piccola dei Mayfield, geniale quanto ombrosa e inadeguata, preda di istinti in parte autodistruttivi, tenta di sedurre il giovane caporale, ma questi la respinge con violenza, ottenebrato da un mix letale di alcool e di farmaci psicoattivi. Così, all’età di 19 anni, Cressida Mayfield scompare; il caporale Kincaid confesserà allo sceriffo di averla uccisa e di averla sepolta nella riserva forestale di Nautauga, ma il corpo non verrà mai ritrovato. La placida comunità di Carthage, come ne I peccati di Peyton Place o in un remake di Twin Peaks, inizia a sgretolarsi sotto i nostri occhi, rivelando nelle sue crepe profonde lacerti di segreti inconfessabili, di fantasmi e misteri da scoprire poco a poco nel corso della lettura.

Messo giù così, l’intreccio farebbe pensare a un thriller psicologico con motivi e situazioni ai quali siamo piuttosto adusi, frequentati in tanto cinema e narrativa, ma trattandosi di Joyce Carol Oates siamo fuori strada. La prolifica e pluripremiata scrittrice statunitense sfodera un talento non comune e una vena narrativa straordinaria. Cresciuta in una zona rurale, a breve distanza dal lago Ontario, dove ancora vive (dopo una parentesi di qualche anno a Detroit), la Oates tiene seminari di scrittura creativa all’università di Princeton. È sorprendente constatare, immergendosi nella lettura del romanzo, come l’autrice riesca a evocare quegli ambienti, quella cultura ancora schiettamente puritana, propria dei coloni inglesi giunti in quelle terre nel Settecento, con un linguaggio diretto e privo di elaborazioni formali ma con una vividezza incomparabile. Al lettore sembrerà di aver vissuto con i Mayfield a Carthage, di aver sentito su di sé gli sguardi di morbosa curiosità e riprovazione dei suoi concittadini.

Meglio sarebbe non esser mai nati. “Scomparsa” di Joyce Carol Oates

Scomparsa non è lettura da farsi a cuor leggero. Per la sua mole: 468 pagine che esercitano un vero e proprio pressing mentale sul lettore. Non se ne esce indenni, e si ha voglia di dire: avrebbe potuto condensare la storia su 200 pagine! Non sarebbe stato lo stesso, e spiego subito il perché. C’è poca suspense in questo romanzo, annotatevelo. Non c’è alcun intento consolatorio o quei mezzucci espressivi e retorici che agganciano il lettore alla pagina; non è narrativa d’evasione, insomma. Potrebbe essere spiazzante seguire la storia attraverso i diversi punti di vista messi in campo. Un momento siamo nella testa di Zeno, in un altro in quella di Cressida o di Juliet. In un altro capitolo annaspiamo tra i brandelli di memoria del caporale Brett Kincaid, nella sua psiche martoriata. L’autrice ci prende per mano, ci avviluppa con la sua scrittura densa e avvolgente, semina sotto i nostri occhi i germi di alcune riflessioni, ci mette al corrente degli sviluppi, dei possibili esiti, della sua visione personale, lucida quanto faziosa dei personaggi e del loro mondo.

L’evoluzione della sparizione di Cressida Mayfield è piuttosto scontata, se non anticipata dalla sua autrice, ma ci viene restituita in modalità inedite e arricchite di ulteriori precisazioni. Non piacerebbe a quei lettori che vogliono esser lasciati liberi di trarre le loro somme, di esercitare il libero arbitrio dei significanti. Ma piacerà a quei lettori che riconducono le loro esperienze di lettura al filone della grande tradizione del romanzo europeo moderno e contemporaneo, che non mancheranno di accostare Scomparsa a Delitto e castigo di Dostoevskij, che viene citato in esergo; o, perché no, al più recente Ian Mc Ewan di Espiazione (Einaudi, 2003). La scrittura di Oates procede per accumulo; a ogni nuovo capitolo è come se declinasse a suo uso e consumo il ben noto procedimento formale dello “scavare caverne intorno ai personaggi”, approfondendone per gradi la psicologia, in contrasti progressivi di luce e ombra, come solo Virginia Woolf ha saputo rappresentare in La signora Dalloway (1925), autrice di cui forse Joyce Carol Oates è – a tutt’oggi – la sola erede e depositaria. Si spiegano, così, le frequenti digressioni, che rallentano e appesantiscono il procedere dell’azione, e i non meno frequenti salti temporali, utili a dipanare e fornire ulteriori dettagli, ad aprire prospettive impreviste su singoli episodi o dialoghi lasciati pencolare diverse pagine addietro.

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Di certo in Scomparsa troviamo tanti dei temi cari alla Oates: le relazioni, più o meno oppressive e coercitive, che tengono insieme i membri della famiglia borghese, nascoste dietro una facciata di rispettabilità se non di fervore religioso. La violenza a tratti gratuita, dirompente e disgregatrice, in questo caso quella della guerra, del sopruso e della prevaricazione, anche privata. La violenza delle istituzioni sul singolo cittadino. Nella seconda parte di questo libro il lettore troverà un redivivo Virgilio, un giornalista-investigatore che condurrà una stagista, una giovane donna fragile e minuta, per certi versi molto simile a Cressida Mayfield, nel braccio della morte nel carcere di massima sicurezza di Orion, in Florida. Una discesa agli inferi che da sola vale il prezzo del libro e del tempo speso per venirne a capo, per la cristallina analisi del cuore nero dell’America, del suo declino morale, di una pazzia difficile da comprendere.

 

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Meglio sarebbe non esser mai nati. “Scomparsa” di Joyce Carol Oates

Il dramma di essere al mondo. L’umanità che sembra creare mostri che poi si rivoltano contro i loro creatori. Personalità borderline, psicotici, criminali incalliti, reduci mutilati da guerre del Terrore globale; su tutto aleggia il motivo del “ritorno”, da cui prende il titolo la terza parte. Non una visione pessimistica senza speranza, ma la consapevolezza che bisogna pentirsi, cercare la redenzione. Oates cita, tra gli altri, Alfred Russel Wallace, l’antagonista di Darwin, che riteneva che il cervello umano fosse stato creato da un’intelligenza superiore e non frutto del caso. “Entra nella mia anima e la mia anima sarà risanata”, prega Brett Kincaid nel penitenziario di Clinton, a Dannemora, N.Y. Prega San Disma, il “buon ladrone”, come lo esorta padre Kranach, il cappellano della prigione, capace di conciliare protestanti e cristiani. Allora il “ritorno”, secondo la Oates, è alle proprie radici cristiane, al perdono della sorella buona su quella maledetta, al perdono della madre nei confronti del presunto omicida della figlia, al placarsi del risentimento e della rabbia di un padre nei confronti di un innocente ritenuto a lungo colpevole. Anche per Cressida, che non professava un credo, Dio era da interpretarsi come il più elevato tra i progetti umani; il disegno di Dio, nella sua apparente crudeltà o nella sua misericordia, è inattingibile per il comune mortale e forse da una tragedia può nascere un possibile futuro, un proseguimento, anche là dove tutti hanno pagato un prezzo troppo caro, senza possibilità di appello. Questi i contenuti, per chi crede nel messaggio di Gesù Cristo, o alla parola di Joyce Carol Oates in Scomparsa. Per gli scettici solo il paradosso filosofico, quel rifluire nel nulla, col sollievo aleatorio che, riguardo a certe vite, “meglio sarebbe non esser mai nati”.

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