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“Mathilda” di Victor Lodato

“Mathilda” di Victor LodatoAcclamato da Barnes & Noble come miglior romanzo d’esordio statunitense dell’ultima stagione letteraria, “Mathilda” di Victor Lodato è senza dubbio un’opera difficilmente classificabile.

Scritta bene, ma senza picchi memorabili, stupisce non poco che l’autore sia un uomo.

Stupisce perché è difficile immaginare che l’animo, la formazione e il sentire di un uomo adulto possano conciliarsi in maniera così perfetta, armonica al punto quasi da fondersi con la sensibilità di una ragazzina di tredici anni come la protagonista.

Devo ammettere che quando, per puro caso, mi sono imbattuta in questo libro, sono rimasta un po’ perplessa sia per la copertina – del tutto anonima – sia per la sinossi, che a mio avviso non rispecchiano il senso più profondo del libro, quello che lo scrittore si diverte a nascondere tra le righe. L’ho comprato lo stesso, per pura e semplice curiosità: essendo stata anch’io, nemmeno troppo tempo fa, una ragazzina parecchio stramba e complicata, volevo vedere come l’autore avrebbe reso la protagonista, mentre già in cuor mio mi preparavo a dissentire e a criticarlo per la sua visione alterata del mondo pre-adolescenziale.

E invece il mondo di Mathilda mi ha conquistata fin da subito, al punto che non sono riuscita a staccarmi dal libro per più di qualche ora; ovunque mi trovassi, appena potevo lo riaprivo e continuavo a leggere.

Rimasta figlia unica dopo la morte della sorella Helene, spinta sotto un treno da un assassino rimasto senza nome, Mathilda decide consapevolmente di diventare cattiva e arrecare il maggior danno possibile agli insegnanti e soprattutto ai suoi genitori, due figure volutamente caricaturali, esasperate ed esasperanti nel loro dolore apatico ed egoista.

Diventa così una ragazzina impossibile, che combina un pasticcio dietro l’altro nella speranza di attirare l’attenzione di un mondo per cui sembra diventata un fantasma, un mondo che continua a proiettarsi in avanti e a esistere anche se Helene non c’è più, mentre un’intera nazione, gli Stati Uniti, è terrorizzata e annichilita da una serie di violenti attacchi terroristici.

E proprio l’assassinio di Helene, unito all’angoscia per una guerra che rimbalza nella quotidianità attraverso la televisione, sono i chiodi fissi di Mathilda, la quale un giorno scopre per caso la password del computer della sorella e decide di investigare sulla sua morte.

Ha dell’incredibile la capacità con cui Lodato riesce a farci vedere il mondo completamente trasfigurato attraverso gli occhi della protagonista, occhi che a tredici anni conservano ancora in parte l’ingenuità di un fanciullo, la stessa che Pascoli celebrava con nostalgia, ma che al contempo dimostrano come anche una mente infantile sia in grado di generare mostri: tutto dipende da ciò che vede e ciò che vive.

La realtà filtrata e artefatta di un bambino può essere perfino più brutale di quella di un adulto, perché non è mediata da una mente consapevole, esperta e preparata al male; al contrario, è in balia della fantasia più sfrenata, una fantasia che nel caso della protagonista è fortemente condizionata dallo sfacelo della sua famiglia, dall’alcolismo della madre, dai primi, tremendi approcci con l’altro sesso e dalle inevitabili delusioni d’amicizia.

Apparentemente niente di nuovo, dunque. Eppure chissà perché in questo libro anche la più ovvia delle circostanze appare diversa, esasperata, incattivita, mostrata senza pudore né moralismi.

Accade ad esempio al rapporto tra madre e figlia, contaminato da quell’invidia e quell’odio che Freud aveva svelato ma che nessuna società ha mai accettato fino in fondo.

Perché è troppo tremendo accettare che una madre la ami ma insieme la odi, la vorresti con te per sempre, eppure certe volte il desiderio che scompaia è talmente forte da toglierti il respiro.

In Mathilda c’è l’umanità portata alle estreme conseguenze, e il lettore non può fare altro che contemplarla affascinato, rendendosi conto che l’apparente cattiveria di questa ragazzina, i suoi pensieri distorti e ossessivi, in fondo sono anche i suoi. I nostri.

Il mistero dell’assassinio di Helene viene svelato già a metà libro, ma questo non fa certo desistere il lettore dal proseguire la lettura, tutt’altro.

Si è sempre più ansiosi di andare avanti, di scoprire quanto ci si deve fare male prima di riuscire a perdonarsi, prima di capire che l’indifferenza è perfino peggio di una bugia.

“Mathilda” insegna che può esserci anche una sorta di innocenza nelle bugie, l’ingenuità di chi spera, mentendo, di poter cambiare la realtà. Non a caso i bambini sono spesso dei gran bugiardi, mentre da adulti viene ipocritamente insegnato loro a considerare peccato la menzogna; ma siamo poi sicuri che le cose stiano davvero così? In fondo cosa sono l’arte, la letteratura, la poesia, se non delle immense, fantastiche ed emozionanti bugie?

 

“Eva ha mangiato la mela e l’avrei fatto anch’io. Anche se riuscissi a resistere alla mela per tutta la vita, prima di schiattare la mangerei di sicuro. Spero che Helene abbia mangiato la mela. So che l’ha fatto. Spero che nella sua bocca sapesse di buono.”

“Mathilda”, Victor Lodato

 

 

“C’è così poca immaginazione nel mondo. Una persona come me è praticamente sola.

Se voglio vivere nel mondo dove vivono gli altri devo fare uno sforzo speciale.”

“Mathilda”, Victor Lodato

 

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