Marta Petreu: la narrazione come chirurgia dell'anima
C’era una volta Moromete, uomo con tanti figli e una moglie sottomessa che viveva nella pianura del Baragan. Odiava tutti, specie la famiglia. A raccontarcelo era Marin Preda, verso gli inizi del ‘900. In pochi, forse nessuno, dopo di lui nella letteratura romena ha più vivisezionato l’anima di un essere umano mostrando il suo lato più oscuro in modo così profondo. Fino a Marta Petreu con “Acasa, pe Campia Armaghedonului” (A casa, nella pianura dell’Armaghedon), edito da Polirom (2011).
Un funerale, quello della madre, Mica, tutto il parentado e Tabita, la figlia ritornata a casa dopo anni di assenza. Da bambina Tabita aveva messo una scadenza alla vita della madre, è questo il suo primo ricordo mentre getta qualche filo di terra sulla bara di Mica. Ottantaquattro anni, avrebbe vissuto fino a quell’età, le aveva detto un giorno, come una certa vicina, e la madre esaudì quel desiderio, nel ’74, in un giorno piovigginoso, segno che al defunto spiace essersene andato via dal mondo dei vivi. Nel giorno del funerale, invece, «il cielo ricevette il colore di un enorme livido», segno che la defunta si era rassegnata, dicono le superstizioni popolari romene. Era caduta solo qualche goccia, di tanto in tanto, che si mescolava alle lacrime sulle guance di Tabita. Non pioveva veramente, come lei non piangeva veramente, «Gli occhi secretavano ogni tanto una lacrima gigante che strisciava sulla guancia come un freddo millepiedi», si era alzato il vento, «una folata che pareva staccasse le ombre dalla terra».
Questo mondo, descritto in maniera eccelsa, e la morte della madre spingono Tabita a ripensare alla vita, alle vite di entrambe, con l’intensità della perdita: «Ricordarti somiglia al toglierti una crosta marrone da una ferita», una ferita aperta lunga 300 pagine, che nemmeno la scrittura è capace di cicatrizzare.
«Era terribile la nostra Mamma, ci faceva sentire come se lei fosse la persona più importante del mondo, e noi, i più cattivi bambini del mondo». Costretta a sposarsi con un uomo che non amava e tre figli, Maria (alias Mica) terrà testa al marito fino all’ultimo giorno della vita dell’uomo, quando dopo averlo maledetto, «non è passata un’ora, ed è morto».
Trentasei anni più tardi la maledizione si triplicherà, riversandosi anche sui figli: «Sii maledetta! Ti maledico con la maledizione di madre! […] Siate tutti maledetti, quanti giorni avrete ancora! Maledette siano le puttane di Mamma e Marta, loro mi hanno costretta a sposare il Padre! Maledetto sia anche Augustin, tuo Padre! Maledetti siate tutti e tre! E sappiate che la maledizione di una madre attecchisce!»E come se non bastasse, conclude: «Con trenta lei, mi toglievo di torno tutti e tre!». E Tabita ripensa a quei momenti e riflette: «Non avevo mai visto una simile intensità di rabbia e infelicità»
Da queste pagine, si evince una verità oggettiva sulla natura della scrittrice, è una delle poche intellettuali contemporanee romene cosciente del fatto che una cultura autentica non si costruisce con complicate gesta di sterilizzazione, bensì versando sangue. Da qui l’impronta estremamente personale dell’opera di Petreu. Un romanzo che a raccontarlo rischia di perdere la sua essenza, quindi non resta altro che attendere la traduzione in italiano per il pubblico peninsulare.
Il romanzo è stato dichiarato di recente Libro dell’Anno 2011 dalla rivista “Romania letteraria” e dalla Fondazione L’Anonimo.
Marta Petreu è scrittrice e professoressa. Ha esordito nel 1981, con il volume di poesie Aduceti verbele (Portate i verbi). Altri volumi di poesie: Dimineata tinerelor doamne, Loc psihic, Poeme nerusinate, Cartea maniei, Apocalipsa dupa Marta, Falanga, Scara lui Iacob. Tradotta in francese e inglese. Ha pubblicato altresì opere di saggistica attorno alle figure di Cioran e Ionesco, riscontrando un grande successo.
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