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Margaret Atwood e il suo migliore dei mondi possibili

Margaret Atwood e il suo migliore dei mondi possibiliPer ultimo il cuore, ultimo nelle preoccupazioni di una razza umana che di umano ha molto poco: questo suggeriscono titolo e trama dell’ultimo romanzo di Margaret Atwood per Ponte alle Grazie, nella traduzione di Elisa Banfi.

Di questi tempi il cuore è meglio strapparselo dal petto, gettarlo alle ortiche, ai maiali geneticamente modificati di qualche allevamento di ultima generazione; anzi, è meglio venderlo al mercato del traffico d’organi, un rene qua, un fegato là, si svende persino il sangue dei neonati, che garantisce l’eterna giovinezza. Quindi il cuore, muscolo o sede di affetti che sia, è merce comunissima, un tanto al chilo, genere in saldo, offerta da supermercato.

Margaret Atwood è magnifica nella sua capacità di creare prototipi di società così mostruosamente irreali da essere possibili. Talmente possibili che pagina dopo pagina ci cresce dentro il sospetto che qualcuno ne abbia già depositato il brevetto e provveduto a fabbricarle in serie.

Margaret Atwood e il suo migliore dei mondi possibili

Tutto inizia con una storia d’amore, o di coppia, come sempre. E con una crisi, che non è crisi di coppia, è globale, e ci porta via il lavoro, la casa, la siepe del giardino, gli attrezzi per potarla e l’apparecchio per cuocere i pancakes, quindi figuriamoci se non si porta via l’amore. Ai protagonisti, Charmaine e Stan, quasi Barbie e Big Jim di un mondo costruito col Lego, non rimane che l’auto dentro la quale vivono mal sopportandosi; si cibano di resti dei cassonetti vicini ai ristoranti; dormono a turno per non farsi rubare le ruote o maciullare i finestrini a colpi di mazza da baseball da spettri umani disperati come loro; si lavano nei cessi dei bar lungo le statali, quando riescono a racimolare, con lavoretti a ore, qualche dollaro per un po’ di benzina e allontanarsi dagli altri umani depredatori.

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Tra gli annunci di lavoro che i due scartabellano, un giorno spunta un intrigante invito a partecipare alla selezione per entrare a far parte del migliore dei mondi possibili, quello in cui viene magicamente offerta la possibilità di recuperare lo status economico perduto a cambio di scontare, a mesi alterni, una pena in carcere, di prestarsi per trenta giorni a svolgere servizi utili alla collettività. I perdenti hanno sempre delle colpe, si sa; nella società perfetta in cui Charmaine e Stan sceglieranno di vivere, in apparente equilibrio tra prestazioni rese al prossimo e profitto economico, il riscatto ha una clausola magistralmente stilata: del bene (e del benessere) si gode solo praticando almeno un po’ di male. E fin qui la Atwood non ci dice nulla in più di ciò che hanno già raccontato, Chirbes, Balzac o Gógol.

 

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La differenza sta nel registro ironico, che passa vorticosamente dal sottile al crasso; e sta nel fatto che siano le donne e solo loro a saper praticare con perizia il male a fin di bene e a ricondurre l’esistenza umana verso la libertà. Gli uomini, grezzi, approssimativi nelle loro concezioni, reggono il timone solo in apparenza: quando l’umanità va salvata sul filo del rasoio loro rimangono, letteralmente, col pisello incastrato dentro un robot dalle sembianze di donna, progettato per dire sempre sì e non svilirli mai. Le donne invece, quelle di tutti i giorni, che piegano gli asciugamani con cura quando sono asciutti, che sferruzzano orsetti di lana, che si ammalano di cancro e continuano ad avere la forza di svolgere il loro lavoro e cercare sempre la verità, che lavano le fodere del divano quando si sporcano, che, sfregiate in volto dalla cattiveria degli altri, trovano ancora, magari a tentoni, il modo di sigillare la crepa dell’anima attraverso la quale cola il risentimento; queste donne, non obbligatoriamente solidali tra loro ma leali sempre, scioglieranno ogni nodo dentro il romanzo e quindi nella vita, nella farsa della società perfetta e in quella vera della crisi globale profonda.

Margaret Atwood e il suo migliore dei mondi possibili

Il femminismo di Margaret Atwood, quasi sempre molto incisivo nei suoi libri, è limpido, non è strumentale alla narrazione, è naturale, mai inviperito contro il sessismo.Non potrebbe essere altrimenti, perché nasce in tempi non sospetti insieme alla militanza politica dell’autrice, alle sue lotte in difesa dei diritti, dell’ambiente, della diversità, del rispetto di ogni identità. Ricordo questo suo impegno tra le motivazioni che nel 2008 le riconobbe la giuria del Premio Príncipe de Asturias; Atwood ritirò il premio invitando, con il garbo tenace che la contraddistingue, i lettori e i critici a non confondere mai la cultura canadese, di cui è esponente, con quella americana. Lo stesso garbo inflessibile che ritrovai in lei un paio d’anni fa a Pordenonelegge, quando presentava al pubblico italiano L’altro inizio e dipingeva a voce, con quell’ironia cordiale (da cor, cordis, cuore) così sua, l’apocalisse che ci attende dietro l’angolo se non inizieremo a prenderci cura subito e seriamente del pianeta in cui sempre più a stento viviamo.

 

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Romanziera, poetessa, autrice di saggi, premiatissima, un’instancabile voce senza paura del futuro nel panorama letterario internazionale, una risata contagiosa come profilassi alle infezioni del mondo, Margaret Atwood, in questo libro che si legge a perdifiato, ci spinge ancora una volta a ficcare lo sguardo dentro le cose e dentro le persone e a vedere oltre, ma senza mai lasciare Per ultimo il cuore.

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