Manzoni “inventore” della lingua italiana
Che vuol ch’io sappia d’impedimenti?
Error, conditio, votum, cognatio, crimen, cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, si sis affinis..., cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita.
Si piglia gioco di me? – interruppe il giovine – Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?
Tutti ricorderanno questo dialogo dei Promessi Sposi, in cui don Abbondio prova a confondere il povero Renzo con il latino, così come, nel capitolo XIII, il famoso «adelante, Pedro, si puedes» del gran cancelliere Ferrer che, durante il celebre tumulto di San Martino, prima prova a tranquillizzare la folla promettendo pane e abbondanza e poi, rivolgendosi al cocchiere in spagnolo, non vede l’ora di andar via.
La lingua, dunque. In entrambi i casi l’utilizzo di una lingua sconosciuta al volgo diventa strumento di prevaricazione e di oppressione. Per Manzoni, la questione della lingua è fondamentale, come dimostrano sia la lunghissima revisione linguistica a cui sottopose il romanzo, prima di arrivare alla versione definitiva, sia l’incarico ricevuto nel 1862, quando viene nominato presidente della Commissione ministeriale per l’unificazione linguistica; del 1868 è la relazione al Ministero della Pubblica Istruzione Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla.
Noti sono i versi dell’ode Marzo 1821 in cui lo scrittore definisce l’idea di popolo «una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue, di cor»: l’italiano non esiste e Manzoni desidera fortemente una lingua che potesse superare i particolarismi regionali e diventare uno strumento di comunicazione per tutto il popolo italiano. In una lettera a Fauriel del 1821, Manzoni lamenta le difficoltà che oppone la lingua italiana per chi volesse scrivere un romanzo, con pochi costrutti e priva di un codice comune tra chi scrive e chi legge.
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Per questo, bisogna ricordarlo, la vera rivoluzione del romanzo è quella linguistica e lo scopo principale era sanare la frattura tra la lingua dei dotti, che seguiva le norme del Vocabolario della Crusca e quella del popolo, diversificata nei dialetti locali. L’opera che noi conosciamo è l’ultima di tre stesure: la prima, intitolata Fermo e Lucia, fu composta tra il 1821 e il 1823; la seconda, pubblicata nel 1827 con il titolo di Promessi Sposi presenta radicali modifiche all’impianto e alla lingua: Manzoni adotta il fiorentino parlato dai ceti colti, filtrando attraverso il fiorentino anche espressioni vive del lombardo, fino a trovare un tono medio. Nella terza stesura, pubblicata tra il 1840 e il 1842, l’autore, dopo essersi trasferito per qualche tempo a Firenze, apporta ulteriori modifiche al linguaggio, compiendo quella che scherzosamente chiamava la «risciacquatura dei panni in Arno». Utilizza espressioni della lingua viva, rendendo lo stile più fluido e ponendo le basi della moderna lingua italiana, modello di lingua per l’Italia unita, liberata, finalmente, «dal cancro della retorica», come si espresse l’Ascoli, un grande linguista dell’Ottocento.
Non bisogna dimenticare che anche il fiorentino è per Manzoni solo il modello di riferimento: la sua sensibilità lo guida a creare un linguaggio duttile e capace di offrire una lingua che attraverso la naturalezza del parlato è in grado di rappresentare la complessa realtà della vita. Questa innovazione comportò un immenso lavoro di lettura di vocaboli e di testi e soprattutto di riscrittura, in quanto Manzoni si preoccupò di trovare nelle parole “milanesi” il loro corrispondente fiorentino nel significato che intendeva far loro assumere.
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