“Luminusa” di Franca Cavagnoli, il racconto di un doppio esilio
Luminusa è un’isola al centro di un mare e Luminusa è anche il titolo del romanzo di Franca Cavagnoli edito da Frassinelli. Ariosto ambienta proprio su quest’isola di luce una delle avventure del suo Orlando. La chiama Lipadusa, «isoletta è questa che dal mare/ medesmo che la cinge è circonfusa». Luminusa è Lampedusa, il cui nome pare derivi dalla luce riflessa dei lampi che, durante i temporali, rimbalza dall’acqua del Mediterraneo e illumina la terra e gli scogli, rendendo chiaro anche il pericolo. Oggi, al centro non solo del mare, ma di un’immane catastrofe, nessun pericolo è chiaro, per chi arriva nei pressi dell’Isola. Il male, scrive Franca Cavagnoli, accade banalmente, oggi più che mai. Luminusa racconta la storia di Mario, uno studente iscritto alla Facoltà di Scienze Politiche di Milano che si ritrova a scrivere didascalie e a raccogliere storie. O meglio, Mario si ritrova a ricostruirle, sognarle, immaginarle e viverle spesso partendo da ciò che resta: una scarpa, un documento recuperato in mare, una fotografia sbiadita. Chi arriva o tenta di arrivare mentre Mario parte o tenta di partire?
Franca Cavagnoli, in Luminusa, traccia il tragitto di un doppio esilio. C’è quello di chi fugge dalle guerre e dal dolore e quello di chi non sa dove fuggire, come Mario, figlio di una generazione perduta o, meglio, svenduta. Una generazione triste, ma di una tristezza antropologica, che vaga cercando più che pace una ragione per quel suo essere, qui e ora, nient’altro che tristezza. È la generazione dei nati dopo gli anni Settanta, che vorrebbero muoversi, fare, cercare un senso o una strada ma si trovano invischiati nella stessa melma che affoga gli uni e salva – ma a che prezzo? – gli altri.
Nel piccolo museo in cui ha trovato impiego, a poco a poco Mario si trova a ricomporre il mosaico della propria vita. Lo fa scrivendo la “vita degli altri”. Una vita che ricostruisce dal fondo, dal suo termine-corsa, la morte in mare, proprio sulle coste dell’isola che, fin dai tempi antichi, è stata un approdo sicuro per chi si perdeva nelle acque apparentemente miti del Mediterraneo: «Per i pescatori di queste isole la legge del mare è sacra. Si soccorre sempre chi è in pericolo, questo dice la legge del mare. Ne ho parlato anche con Claudia. “Ma non dovrebbe essere la legge della vita?” ha detto lei».
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Nessuno è innocente dinanzi a questa tragedia, che travolge l’umano in quanto tale e trascina con sé le forme stesse della sua accoglienza. Scrive Franca Cavagnoli in Luminusa che «in questo Paese per troppi anni si è vezzeggiata l'immagine dell'intellettuale seduto al tavolino di un caffè di Parigi davanti al suo Pernod. L’ho vezzeggiata anch’io purtroppo. Il punto non sono gli intellettuali. Il punto è il pensiero».
Franca Cavagnoli è autrice e traduttrice. Luminusa è il suo terzo romanzo per Frassinelli. Lo precedono Una pioggia bruciante (Frassinelli, 2000) e Non si è seri a 17 anni (Frassinelli, 2007). Docente di traduzione nelle università di Milano e Pisa, Cavagnoli ha redatto il volume di saggi sulla traduzione letteraria Il proprio e l’estraneo nella traduzione letteraria di lingua inglese (Polimetrica, 2010). Nella sua lunga carriera si contano più di quaranta titoli tradotti tra cui ci sono opere di M. Coetzee, Nadine Gordimer, Katherine Mansfield, Toni Morrison, V.S. Naipaul. E di certo non si può dimenticare la sua traduzione de Il grande Gatsby risalente al 2011, grazie a cui è stata insignita del premio Von Rezzori 2011 per la traduzione letteraria.
Cavagnoli dunque rientra nella galleria di quei traduttori autori che si sono cimentati nell’arte di scrivere oltre che di tradurre.
Luminusa è un romanzo attraversato da una forte tensione civile e da ciò che potremmo chiamare “la ferita della distanza”– come provare un’empatia che sia anche una concreta condivisione di destino? E come osserva l’autrice in un’intervista, è la letteratura, con i suoi tempi lenti, lunghi, talvolta anche dilatati, a permetterci di guardare la realtà in modo diversi. A spingerci a essere più attenti all’altro e a favorire l’immedesimazione.
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