"Lulù Delacroix" di Isabella Santacroce
L'ultima fatica dell'ex fenomeno letterario Isabella Santacroce si chiama Lulù Delacroix.
Si tratta di un bel librone edito da Rizzoli di quasi quattrocento pagine, dove abbandonata la vena dark erotica, l'autrice si lancia in un fantasy edificante alla neo post post Carroll, dal taglio bruttamente disneyano.
Oh take me down to the Perfect City / where the grass is green / and the girls are pretty!
Lulu Delacroix, è una bimba calva di Perfect City, una specie di Paradise City di Guns'n'rosiana memoria, dove le siepi sono verdi – che dico verdi? Verde esattissimo! e le bimbe sono belle e bionde. È una povera creatura infelice, sottoposta a tutte le soperchierie da parte delle sorelle cattive e all'indifferenza e alla vergogna dei genitori.
È segregata in casa, e parla da sola o con le bambole in maniera sgrammaticata, costantemente scambiando imperfetto congiuntivo con presente indicativo, cosa che comunque non le impedisce di comunicare per via medianica con un genio della letteratura: Emily Dickinson. Addirittura!
Certo, in fin dei conti, il retro della copertina riporta le citazioni non solo della Dickinson, ma financo di Dante. Giusto per far capire che questo è un libro che parla di letteratura, e non sia mai che pensiamo che si tratti di un libro di ninna-nanne in gotico.
È a partire all'incirca dalla seconda parte, che incominciano le avventure di Lulù Delacroix, a cui viene chiesto dalla bambola di pezza monca di salvare il mondo dalla regina Ingiusta.
E qui l' “ohhh” ci sta a pennello.
A partire da questo punto, Lulù viene catapultata in un universo parallelo pullulante di incontri iperbolici e impensabili, tutti comunque prodotti esagitati della fantasia più kitsch.
Non lo dovevi dire!
Oddio, ho usato il termine kitsch.
Mi ero riproposta di usarlo un po' più in là nella recensione, ma è difficile rimanere seri con un libro simile e continuare a giocare liscio, quando le carte in mano sono così pesanti.
Anche perché, nonostante la quarta di copertina, il mio spirito di lettore bastian contrario si rifiuta di considerare quest’ammasso di pagine un qualcosa di letterario.
Mi chiedo, perché tanto battage per un fantasy? Per leggere una minestra scritta di cartoni animati, che non hanno sugo, ma sanno solo di dado e conservanti?
Perché poi il resto del libro è condito di spezie a ogni pie’ sospinto così impossibili e dal gusto così stucchevole che si perde quasi voglia di continuare l'assaggio.
In una parola, si rimane stomacati.
De gustibus, si può dire.
Eh no. Non è la visionarietà, la fantasia galoppante a dare fastidio, come se solo le opere “serie” , ostentatamente “realiste” fossero le uniche a poter vantare un marchio letterario in questi anni. Per carità, no. Il punto è che c'è fantasia e fantasy, ci sono visionarietà o surrealismo e luoghi comuni.
C'è insomma una separazione non definibile ma palpabile fra immaginazione e già immaginato.
Si fa fatica forse a credermi se dico che le dontolline pulsanti o i cervi blu o il ragno tenore li ho già sentiti e visti da qualche parte. La fantasia per la fantasia, intesa come fantasia disneyana, non basta. Non basta sproloquiare a briglia sciolta di inimmaginabili e non futuribili mondi post-anderseniani (e di un Andersen deleterio, per giunta).
Insomma, non è che se coloriamo il Pedissequo con i colori dell'arcobaleno e ci mettiamo due soldatini di legno marcio a farci la guardia, lo rendiamo più nobile. Sempre Pedissequo rimane.
Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi, baby.
Una maniera di camuffare il Pedissequo usata abbondantemente dalla Santacroce è il ricorso al citazionismo.
Un vizio che personalmente trovo pericoloso, e controproducente, perché induce nel lettore l'idea che neppure l'autore creda davvero nel proprio testo e ne cerchi in un Altrove Alto una conferma di qualità .
Nel caso di Lulù Delacroix, tirare in ballo ad esempio - oltre ai già citati Dante, Emily Dickinson, e Lewis Carrol - Chopin (“Primo preludio chopiniano in la maggiore”), Brahms (“Isabella: primo breve intermezzo sinfonico brahmsiano”) o addirittura Cristina Campo (”la tigreassenza algebrica”) non aiuta questo cumulo di pagine a ergersi al di sopra del già digerito. Anzi, a mio parere lo affossa ancora di più nel ridicolo.
Ridicolo, appunto. Ridicolo pensare che il lettore o certi lettori possano sentirsi intrattenuti da un romanzo simile.
Possibile che l'unica fantasia sdoganabile editorialmente non vada al di là di un puerile cartone animato? Si ha davvero paura di riscoprire il surreale vero, quello che nasce da una critica profonda e sentita e non banalizzante? Quella fantasia che non è una droga per assuefare gli animi al luogo comune, ma che al contrario li vuole distruggere?
Ma forse le mie domande sono troppo ingenuamente idealiste.
E allora riconosciamo la vittoria del luogo comune e del cattivo gusto, del Pedissequo nella grande distribuzione editoriale, ancora una volta.
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