Luigi Pirandello: Mattia Pascal non è morto
«[…] C’è un oltre in tutto. Voi non volete o non sapete vederlo. Ma appena appena quest’oltre baleni negli occhi d’un ozioso come me, che si metta a osservarvi, ecco, vi smarrite, vi turbate o irritate» – è un oltre che mette a nudo la maschera pirandelliana e denuncia, agli occhi di chi ancora riesce a vedere qualcosa, una mancanza: l’assenza dell’uomo, il vuoto della facciata, l’impossibilità di sottrarsi alla velocità delle macchine.
Punge, Luigi Pirandello; dà fastidio. Lo stile non è quello di Alberto Moravia: non si avverte il distacco dalla borghesia egotista, egocentrica, indifferente, anzi. Pirandello partecipa, si fa sentire, aggredisce quelle inconsapevoli macchine borghesi chiamate «uomini» – lo stesso protagonista dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, colui che avrebbe dovuto denunciare il male, finisce per essere vittima del male stesso. Non c’è pietà per l’uomo, per colui che non riesce a vivere, a essere se stesso in un mondo che non è più se stesso: l’apparenza regna sovrana, l’ipocrisia borghese trasforma il soggetto in uno stupido oggetto, in qualcuno che si vede vivere, pur non riuscendo a vivere.
L’uomo diventa persino vittima di un oggetto inanimato o, meglio, di una sua azione ben precisa: girare senza sosta alcuna. È impassibile, gira assieme a quello e nel frattempo cerca di «trovare un meccanismo, che possa regolare il movimento secondo l’azione che si svolge davanti alla macchina. Giacché» – sostiene quegli – «io, caro signore, non giro sempre allo stesso modo la manovella, ma ora al più presto ora più piano, secondo il bisogno. Non dubito però, che col tempo – sissignore – si arriverà a sopprimermi. La macchinetta […] girerà da sé. Ma che cosa poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo caro signore, resta ancora da vedere».
La denuncia è forte, il male è assoluto: cosa succederebbe se tutte le macchine prendessero il posto di chi, adesso, «gira la manovella»? E, soprattutto, cos’è questa «macchina»? C’è sicuramente, da parte di Pirandello, una presa di posizione rispetto al trionfo degli ordigni nella vita moderna, ma il discorso va oltre. È certo, infatti, che avrebbe parlato e scritto diversamente se i protagonisti del Novecento fossero stati altri, e non esseri umani ridotti a sagome, a maschere divorate completamente dalle attività di tutti i giorni, da qualcosa che «va fatto», perché così vuole quel mostro chiamato «società». Sono maschere consumate a tal punto da rischiare un pauroso «stato di follia». E solo dinanzi a questo, forse, potrebbero manifestarsi nella loro umanità.
Le parole che usa sono così incisive da risuonare nella mente come una sorta di sentenza: «[…] Guardo per via le donne, come vestono, come camminano, i cappelli che portano in capo; gli uomini, le arie che hanno o che si dànno; ne ascolto i discorsi, i propositi; e in certi momenti mi sembra così impossibile credere alla realtà di quanto vedo e sento, che […] mi domando se veramente tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita, che di giorno in giorno sempre più si complica e s’accèlera, non abbia ridotto l’umanità in tale stato di follia, che presto proromperà frenetica a sconvolgere e a distruggere tutto. Sarebbe forse, in fin de’ conti, tanto di guadagnato. Non per altro, badiamo: per fare una volta tanto punto e daccapo» (corsivo aggiunto).
C’è, insomma, un meccanismo della vita che è stato sconvolto e che non potrà essere ripristinato, se non con un cambiamento radicale. Un cambiamento che non è avvenuto – ancora una volta, è la Storia a parlare; movimenti del Sessantotto a parte, sarà il trionfo della borghesia, della sua fisionomia ipocrita, indifferente a tutto e a tutti, persino a se stessa.
Si capisce bene, insomma, che la condanna non è rivolta alle macchine, ma a uno strano meccanismo che, all’epoca, iniziava a regolare la società intera: un sistema in cui – scrive Serafino verso la fine del II capitolo dei Quaderni – «[…] Servo la mia macchinetta, in quanto la giro perché possa mangiare. Ma l’anima, a me, non mi serve. Mi serve la mano; cioè serve alla macchina. L’anima in pasto, in pasto la vita, dovete dargliela voi signori, alla macchinetta ch’io giro. Mi divertirò a vedere, se permettete, il prodotto che ne verrà fuori. Un bel prodotto e un bel divertimento, ve lo dico io». L’essenza prima dell’uomo – lo confessa, quasi scherzando – non serve più. Che se la prenda pure la macchina!
È questo il cuore di gran parte dell’opera pirandelliana: l’uomo non agisce, il suo animo resta immobile, imperturbabile; si limita ad assistere, a trasformarsi in ciò che gli altri vogliono, poco importa se tra questi «altri» si nasconda un uomo, un animale o una macchina. Ciò che conta è che quell’«oltre» è svanito per sempre, come se ognuno di noi fosse l’ennesima riproduzione di un Mattia Pascal: «in una condizione così eccezionale, che posso considerarmi come già fuori dalla vita; e dunque senza obblighi e senza scrupoli di sorta».
Un essere del genere può essere definito «uomo»? Non è forse “più morto” di coloro che lo sono già? E, soprattutto, quella società è davvero diversa da questa società?
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