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Luigi Capuana, lo sperimentalismo del “teorico” del verismo

Luigi Capuana, lo sperimentalismo del “teorico” del verismoLa gran parte della storiografia letteraria ricorda Luigi Capuana, di cui oggi ricorre il centenario dalla morte (Catania, 29 novembre 1915; era nato a Mineo, piccolo borgo della stessa provincia siciliana, il 29 maggio 1839), come «teorico del verismo» laddove il «praticante» per eccellenza sarebbe stato il corregionale e amico Giovanni Verga. Ma quanto conta davvero questa distinzione di là dalla nozionistica di base e dei criteri di composizione di una storia della letteratura? Quanto conta per noi lettori, fuori dalle aule scolastiche o dalle discussioni accademiche? Se leggessimo, per esempio, Il marchese di Roccaverdina (1901), senza essere mai passati per le pagine di un manuale, coglieremmo come prima cosa l’impegno morale e il carattere «demopsicologico» (Enrico Ghidetti) del romanzo oppure sentiremmo bruciare la pervicace passione del marchese per Agrippina e la feroce gelosia che lo conduce all’omicidio e alla follia? E ancora, questa distinzione è davvero rilevante o solo capziosa?

Che la risposta sia l’una o l’altra oppure un compromesso, è un dato di fatto, invece, che i manuali eludano volentieri quegli aspetti all’apparenza meno facilmente inquadrabili sotto forma di “canone” ma che pure fanno la differenza tra “personalità” e “caratteristica”. Nel caso di Capuana, un aspetto poco canonico ma che ha sempre suscitato il mio speciale interesse è l’attenzione verso la scrittura femminile italiana di fine Ottocento/inizio Novecento, indizio di sensibilità, ricettività e apertura non scontate per i tempi. In particolare fu corrispondente e critico sollecito di Neera, pseudonimo di Anna Radius Zuccari (1846-1918). Scrive Antonia Arslan in Dame, galline e regine (Guerini e Associati): «Come sul piano critico, anche sul piano personale forse fra quelli che meglio compresero la sua inquieta personalità di donna e di scrittrice […] fu lo “specialista” di psicologie femminili Luigi Capuana (…)». Ecco allora che i racconti riuniti in Profili di donne (1877) guadagnano una prospettiva altra dal mero «studio della psicologia e psicopatologia femminile» come «uno dei filoni fondamentali della sua vocazione narrativa» proponendosi piuttosto, ancorché con esiti incerti soprattutto nell’uso della lingua, come esercizio di conoscenza, esperienza trasversale all’uomo e al prosatore.

Luigi Capuana, lo sperimentalismo del “teorico” del verismo

In questa medesima cornice, dunque, anche l’altro (e tuttavia cronologicamente precedente al Marchese di Roccaverdina) grande romanzo di Capuana, Giacinta (1879), esprime tutta l’acuta osservazione della materia di cui sono fatte le donne, una materia impenetrabile e spesso inintelligibile, misteriosa al punto da poter essere sondata, forse, solo attraverso gli strumenti della pura scienza, per cui una violenza subita diventa colpa da espiare attraverso l’auto-degradazione e, infine, emendare attraverso il suicidio. Giacinta realizza uno dei modelli programmatici più importanti del naturalismo italiano tanto per i temi che tratta quanto per la forma che, più tardi, in Confessione a Neera. Come io divenni novelliere (poi in Homo, Treves, 1888) l’autore definirà «provvisoria […] tanto che cercavo, nella misura delle mie deboli forze, di svolgerla, d’ampliarla o, per lo meno, di ripulirla togliendone via quanto ancora rimaneva in essa di fronde inutili, di rami morti».

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Di fatto, il verismo italiano può considerarsi controverso, problematico, in qualche modo ambiguo, con alcuni degli stessi narratori prima appassionati sostenitori e poi altrettanto attivi detrattori o quanto meno, abbracciata la causa d’impeto se ne distaccarono con lo stesso vigore. Non è compito di questo articolo spiegare le ragioni di tali scelte e ancor meno esprimere un giudizio. Lasceremo, piuttosto, parlare i protagonisti, come Capuana appunto: «[…] i novellieri e i romanzieri […], per avere un segno attorno a cui raccogliersi durante la mischia, inalberarono il vessillo del verismo, il quale accennava più particolarmente al metodo che non alla materia di cui l’arte loro si serviva» (La crisi del romanzo, in Gli «ismi» contemporanei, 1898).

Luigi Capuana, lo sperimentalismo del “teorico” del verismo

Anche per questo, o nonostante questo, la definizione di Capuana come «teorico del verismo» non convince, o piuttosto non esaurisce una personalità complessa, versatile che si muove liberamente dalla poesia alla critica militante, dalle novelle (tra le altre ricordiamo solo Le appassionate, 1893; Le paesane, 1894; Il Decameroncino, 1901; Le ultime paesane, 1923 postume) al saggio, dal teatro dialettale (nel novero segnaliamo la trasposizione di Giacinta e il melodramma Malìa, musicato da Francesco Paolo Frontini) alla letteratura per ragazzi (C’era una volta, 1882; Scurpiddu, 1898; Re Bracalone, 1905; Chi vuol fiabe, chi vuole?, 1908;), passando per spiritismo e occultismo senza soluzione di continuità.

Eppure, a ben considerare, più che un personaggio inquieto o un artista eclettico, Capuana sembra indossare perfettamente i panni dell’uomo di transizione dal positivismo al decadentismo, da un secolo all’altro, dalla monolitica razionalità al panismo dell’esperienza, ma senza contraddizione. Piuttosto col piglio curioso di chi esplora e verifica la natura, la scienza, la psicologia e la fantasia con la consapevolezza che la vita e l’arte non si possono ridurre a un’unica definizione, un’unica teoria, un’unica forma. Che sia questo a rendere «il metodo» di Luigi Capuana sempre moderno anche a cent’anni dalla morte? 

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