“Lui è tornato” di Timur Vermes
E se Hitler ritornasse nella Germania dei nostri giorni? Intorno a questo esercizio di storia controfattuale ruota il romanzo del giornalista tedesco Timur Vermes Lui è tornato (Bompiani, 2013, traduzione di Francesca Gabelli). Ed effettivamente è quello che succede nel suo romanzo, in cui un Hitler redivivo, risvegliatosi nella Germania odierna, dove «al vertice del paese c’era una donna tozza, che infondeva lo stesso ottimismo di un salice piangente», riesce a conquistare nuovamente spazio con una trasmissione televisiva di grande successo.
Basato sull’equivoco che quel signore apparso in un campo nel centro di Berlino nel 2011 sia un comico imitatore e che quella messa in scena sia una parodia, il programma ha sempre maggior seguito di pubblico, rivelando la capacità di persuasione delle masse e il carisma del personaggio; non fa niente per fingere, anzi è in ogni frangente sempre se stesso, anche in situazioni grottesche, in cui interpreta colui che è in realtà e gli interlocutori, credendo di trovarsi di fronte a un eccezionale attore, stanno al suo gioco; è galvanizzato dal riscontro che riceve: «mi pareva di essere tornato all’inizio degli anni venti. Con la sola differenza che allora mi ero accaparrato un partito. Questa volta era una trasmissione televisiva».
È questo al dunque l’inquietante interrogativo posto da Vermes: dove potrebbe arrivare oggi – e, di fronte all’uso di Internet, la televisione di cui parla il giornalista tedesco appare già superata – un personaggio con un tale carisma e con un inquietante programma politico, avendo a disposizione i nuovi strumenti di comunicazione, ancorché apparso sulla scena come attore comico? Quale forma ancora più pervasiva di totalitarismo e di controllo delle masse potrebbe attuare? Il novello Hitler, dopo una fase di iniziale smarrimento, è lesto nel comprendere le potenzialità del mezzo, di cui anzi depreca l’uso che ne vede fare: «Rimasi a bocca aperta. La Provvidenza aveva donato al popolo tedesco un grandioso, meraviglioso strumento di propaganda e qualcuno lo sprecava divagando sulle rondelle di porro», leggiamo sorridendo pensando al dilagare di programmi sulla cucina e ai cuochi che vediamo dilagare sulle nostre reti.
Il romanzo ha riscosso notevole successo in Germania, suscitando, al contempo, aspre critiche, in parte per le riflessioni, che si inseriscono in un ormai nutrito indirizzo storiografico, sulla “colpa” collettiva e sulle responsabilità dei tedeschi – «ci sono due possibilità: o c’era un intero popolo di maiali, oppure quello che è accaduto non è stata una porcheria, bensì l’espressione della volontà popolare» – in parte perché, secondo questi critici, Hitler ne uscirebbe ritratto in maniera caricaturale, minimizzando la tragicità del nazismo e ridendo di un personaggio di cui è impossibile ridere.
Non pare sia questo il limite del romanzo, di facile lettura per la scrittura piana e scorrevole, quanto una certa esilità della trama, che, dopo la paradossale e originale trovata iniziale, si avvita su se stessa senza particolari sviluppi. Siamo di fronte, insomma, ad un romanzo interessante, ma più per un dato “sociologico”, di stimolo ad una riflessione su aspetti della società e della politica contemporanea, che per il suo non eccezionale valore letterario. Una lettura comunque non inutile, anzi molto attuale se pensiamo a certi recenti sviluppi, soprattutto italiani, che fa riflettere e a tratti sorridere, ma con un brivido costante perché forse è vero che «più la bugia è grande, più la gente ci crede».
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