Luci e ombre del tempo “perduto”, leggere “Gita al faro” di Virginia Woolf
Una famiglia, una casa, un passato irrecuperabile e filtrato dal ricordo: sono questi i soggetti di Gita al faro, quinto romanzo di Virginia Woolf e tra i più belli e complessi mai scritti. Pubblicato nel maggio del 1927, questo singolare romanzo racchiude in sé tutte le caratteristiche che contraddistinguono la prosa della sua autrice, pur proponendosi, come sembra raccontarci la stessa Woolf, come romanzo “sperimentale” e, forse, per questo di difficile accessibilità per molti.
Separare del tutto le opere di Woolf dalla sua vita è praticamente impossibile, come spiega egregiamente Nadia Fusini in Possiedo la mia anima, spesso i suoi personaggi sono quasi dei “doppi” di Virginia e di chi la circonda, e la sua lettura può essere un ottimo modo per avvicinarsi a questa autrice e al suo straordinario processo creativo, nonché esperienza biografica. Non si può, anzi, non si riesce a non provare empatia o comunque un profondo senso di comprensione dopo aver letto e conosciuto un po’ della vita di una delle autrici più importanti della Storia.
Quando scrive Gita al Faro – a volte tradotto semplicemente come “Al faro” – Virginia ha ben chiaro il suo soggetto: vuole raccontare di sé, naturalmente, nello specifico ci vuole raccontare dei suoi genitori – l’austero e brillante filosofo Leslie Stephen e la bellissima e inarrivabile Julia Duckworth (nata Jackson) – della sua infanzia, della casa di St. Ives in Cornovaglia dove la numerosa famiglia era solita trascorrere le vacanze. A tutto questo, come ci racconta lei stessa nei suoi diari, Virginia aggiungerà «le solite cose che penso di metterci – la vita, la morte ecc.». Nulla di strano, dunque, fino a qui; «ma», prosegue Virginia sempre nel suo diario, «(…) sto pensando che inventerò per i miei libri un nuovo nome che sostituisca la parola “romanzo”. Ma quale? Elegia?».
Virginia si confronta col genere autobiografico, ma anche con quello elegiaco e perciò fortemente e volutamente lirico, i cui soggetti sono proprio la sua famiglia, la casa delle vacanze e quel passato che la tormenta e la incatena, ma a cui è tanto abile a dar forma. Una forma nuova, qui, in cui è difficile delineare una trama.
Il romanzo è infatti suddiviso in tre sezioni. La prima, intitolata La finestra, si apre su una giornata di fine estate del 1909 in Scozia, più precisamente sull’isola di Skye. Qui, facciamo la conoscenza della famiglia Ramsay – il padre è un serioso professore universitario di filosofia, la madre, invece, si occupa dei loro otto figli (Prue, Andrew, Jasper, Nancy, Rose, James e Cam). Con loro, ci sono alcuni dei loro numerosi e abituali ospiti tra cui Charles Tansey – allievo e ammiratore di umili origini del Signor Ramsay; Lily Briscoe, pittrice sulla trentina, considerata giovane, ma quasi troppo vecchia per sposarsi ormai; il Signor Bankes, vedovo amico di famiglia; Augustus Carmaichael, poeta oppiomane, Minta Doyle, protetta della Signora Ramsay che la vorrebbe sistemare con Paul Riley, altro giovane ospite.
Dal giardino di casa si scorge un piccolo isolotto con un faro ed è proprio lì che vorrebbe andare il piccolo James il giorno successivo. Sua madre ne è entusiasta e glielo promette, a condizione che il tempo sarà bello, ma ecco che subito il padre interviene, perentorio, a smorzare ogni speranza “ Ma (…) non sarà bello”, “Non si andrà al Faro, James”, rincarerà la dose Tansey. Da questo semplice scambio di battute si innesca poi tutta la vicenda, anche se parlare di trama vera e propria è decisamente azzardato.
Virginia, infatti, ci guida con il suo sapiente occhio introspettivo attraverso la mente e gli animi dei suoi personaggi. La tecnica è sublime quanto complessa: assistiamo ad un rapido cambio di punto di vista nel giro di poche battute, tanto che può risultare complicato, in un primo momento, stare dietro a questi repentini cambi di personaggio. Sara Sullam, nel suo brillante ed esaustivo Leggere Woolf, lo chiama, a sua volta citando Auerbach, “scivolamento del punto di vista”, una tecnica funzionale alla rappresentazione di una “coscienza pluripersonale”. Questo è evidente specialmente nella prima sezione, che, come abbiamo già accennato e come spiega egregiamente Sullam, si compone di pochi attimi di vera e propria narrazione, in quanto questi sono intervallati da “una massa preponderante di frasi in indiretto libero che rappresentano i pensieri e, meno spesso, le parole di personaggi”. A questo si uniscono svariate citazioni di poesie da parte, più che altro, del Signor Ramsay.
In tutto questo imponente e raffinatissimo minestrone il lettore è in grado (più o meno) di decifrare le relazioni tra i personaggi e uno di questi è proprio la dimora estiva dei Ramsay, Finlay House. Nella seconda sezione, infatti, intitolata Il tempo passa, suddivisa in dieci capitoli, assistiamo alla trasformazione di Finlay House nei dieci anni che intercorrono tra quella giornata descritta nella prima sezione e il 1919. Molte cose sono cambiate, molti lutti hanno segnato i Ramsay e per molto tempo la casa è stata disabitata. La Prima Guerra Mondial e non ha risparmiato nemmeno i nostri protagonisti, ma è il settembre 1919, la guerra è finita e la casa attende il ritorno dei suoi villeggianti.
La terza ed ultima sezione, Il faro, vede il ritorno di alcuni personaggi e il realizzarsi della tanto agognata gita al Faro per James, suo padre e sua sorella. Con loro c’è anche Lily Briscoe, che, ci è ormai chiaro, possiamo considerare un po’ l’alter ego di Virginia in questo romanzo. Lily, infatti, è decisa ad ultimare il suo ritratto della Signora Ramsay, ma lei non c’è più. Lily, come Virginia, deve affidarsi al ricordo. Casa, famiglia e ricordi, lo abbiamo detto, sono gli ingredienti di questo coraggioso e spavaldo romanzo. Si tratta, in fin dei conti, di una riflessione, a tratti scandita da una nostalgia che però non sfocia mai nel sentimentale, sulla possibilità ditradurre il passato e i ricordi in una forma contemporanea.
Ecco, dunque, che prende forma la nostra elegia, da sempre il genere prediletto per dare forma letteraria al lutto. Virginia celebra i suoi cari, i suoi ricordi, cerca di dare un senso al suo lutto e l’elegia sembra proprio fare al caso suo. La nostra autrice, infatti, riesce a calare una forma lirica dentro la struttura di questo singolare romanzo. Un romanzo breve, a dirla tutta, ma che rimane comunque uno dei romanzi più elusivi del Novecento, in grado di intersecare forme, generi, ma soprattutto di far incagliare, come solo Virginia riesce, i nostri animi di lettori.
Leggere Virginia Woolf significa, infatti, mettere in gioco noi stessi a trecentosessanta gradi: il nostro cuore, il nostro cervello, tutto quanto viene coinvolto nell’afferrare il significato profondo di ogni sua meravigliosa opera. È stancante, certo, però è anche tremendamente edificante.
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