Luchino Visconti, l’esteta del neorealismo
Quando, nella primavera del 1943, i produttori di Ossessione, primo lungometraggio di Luchino Visconti, di cui oggi ricordiamo il quarantesimo anniversario dalla morte (Milano, 2 novembre 1906 – Roma, 17 Marzo 1976), sottoposero l’anteprima del film a un tetro e corrucciato Gaetano Polverelli, all’epoca ministro della Cultura Popolare, prevennero le obiezioni contro la cruda verosimiglianza di talune scene, affermando: «Un popolo il quale non possa essere lasciato per cinque minuti solo con la realtà non è un popolo adulto» (G. Avorio). Di certo il popolo italiano nel 1943 era abbastanza adulto da poter essere mandato in guerra in condizioni ostentatamente miserabili, senza contare che di lì a poco avrebbe combattuto una vera e propria guerra civile (e lo stesso Visconti si sarebbe ritrovato unito alla Resistenzaromana, arrestato, torturato e condotto nella prigione di via Tasso).
Più che non adulto, forse, il popolo italiano non era stato educato, nei vent’anni di dittatura fascista, ad affrontare la realtà, edulcorata e manipolata dalla propaganda di regime. Ma certo è che proprio dalla pellicola di Visconti (insieme a I bambini ci guardano di Vittorio De Sica e a Quattro passi tra le nuvole di Alessandro Blasetti, entrambi del1942) partiva, almeno sul grande schermo, la promessa di un rinnovamento morale e culturale che porterà poi il nome di neorealismo. Una promessa che Visconti reitererà nei successivi La terra trema (1948) e Bellissima (1951).
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Il primo è il minuzioso calco contemporaneo de I Malavoglia di Verga, un film capace di congiungere la fedeltà all’originale letterario (con un processo di traduzione inversa della lingua: dall’ideale italiano del romanzo al dialetto della sua trasposizione cinematografica) all’aperta infedeltà al calligrafismo narrativo del neorealismo: l’opera viscontiana si presenta infatti articolata, costretta dentro una rigida impalcatura logica, quasi si recitasse su un palcoscenico, una «rappresentazione di secondo grado», una messa in scena, piuttosto che un documento di vita vera. È l’impronta volontaristica e autoriale di un regista che asseconda più l’estetica della macchina da presa che la retorica di maniera di una particolare stagione socio-culturale.
Bellissima (protagonista una straordinaria Anna Magnani) conferma la visione sublimata della povertà marxisticamente esibita dal neorealismo attraverso una raffinata operazione di meta-cinematografia, caustica e amara: il cinema è il nuovo obiettivo, o mezzo, per scalare una società per sempre classista. La vanità e la ricerca di soddisfazioni materiali non faranno la rivoluzione ma sono comunque una forma di lotta sociale, la lotta di una madre in cerca di fama per la propria figlia e di appagamento per sé stessa. E tuttavia falliscono in entrambi i casi: alla fine non resta che il ritorno all’ordine e alla famiglia.
Con Senso (1954) prosegue il viaggio di Visconti attraverso la letteratura ottocentesca di cui La terra trema era stato preludio. Il richiamo narrativo, questa volta, va a una novella di Camillo Boito contenuta in Nuove storielle strane (1883). Senso è un melodramma (il che ci dà l’opportunità di ricordare, brevemente, anche la regia delle opere liriche, dalla Traviata di Verdi alla Salomè di Strauss) proteso fino al limite: l’afflato storiografico non descrive, come ci si potrebbe aspettare, il cuore dell’opera, che invece è conquistato, come sottolinea il montaggio incalzante e drammatico, dalla tragica passione, dalla viltà, dalla meschinità di un amore impossibile e dall’osservazione passiva dei protagonisti. Non c’è niente di eroico o esegetico, insomma, e molto, invece, di lirico. Un discorso formale che continua con Le notti bianche (1957), traduzione in pieno stile viscontiano del celebre romanzo breve di Dostoevskij e girato sorprendentemente in studio, e che si amalgama alla riflessione sociale in Rocco e i suoi fratelli (1960), considerato tra le opere migliori del regista per l’unità della trama, la potenza espressiva e l’intelligenza del piglio indagatore verso l’emergente processo di urbanizzazione, così come la viscosa mestizia che congiunge ogni fotogramma.
Il Gattopardo (1963, vincitore della Palma d’Oro a Cannes) recupera la lezione di Senso approfondendola, rivelando l’incoerenza di un Risorgimento borghese incapace di convincere l’aristocrazia e che non si dette pensiero delle classi popolari, preferendo l’utopia di poter vivere per sempre in una torre d’avorio, motivo che basta, secondo una parte della critica, ad assimilare la figura del principe di Salina a quella dello stesso regista (assimilazione che diverrà equazione con la figura del Professore in Gruppo di famiglia in un interno):
«È vero che Visconti ha sempre vissuto in torri d’avorio. Ma torri aperte a tutti, piene di gente, di avvenimenti, di fatti; nelle quali non si è mai ritirato ma dalle quali, al contrario, non ha fatto che entrare e uscire in continuazione […]. Qualsiasi riferimento a personaggi reali è soltanto quello che, legittimamente, Visconti ha sempre avocato a sé dei suoi eroi: dal principe di Salina a Ludwig, identificandosi nelle grida di sdegno dei pescatori di Acitrezza, nella ribellione di Rocco […]. Senza peraltro con questo doversi parlare di autobiografie» (Enrico Medioli).
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Morte a Venezia (1971) porta sullo schermo una storia da molti considerata anti-cinematografica perché troppo letteraria. Di fatto, il racconto originale di Thomas Mann(di cui Visconti era lettore appassionato) è un non-racconto, una raccolta, ancorché suggestiva, di idee, riflessioni, spunti di carattere estetico difficili da restituire attraverso l’immagine. Non a caso, il protagonista del romanzo di Mann è un raffinatissimo letterato e la trama un lungo monologo sulla crisi dell’estetica del romanzo borghese; il Gustav von Aschenbach di Visconti, invece, è un musicista. Ma quella che alcuni hanno interpretato come perniciosa deviazione dall’ispirazione narrativa è, in effetti, un’acuta lettura tra le righe, la capacità di catturare un riflesso e renderlo vivo. Mann, infatti, nell’elaborare il suo personaggio si era, a sua volta, ispirato a Mahler; la prosodia del testo segue una partitura che trascendendo la parola si fa suggestione e nel romanzo duetta con un altro personaggio, assente nel racconto ma presente nella bibliografia dello scrittore tedesco. Il misterioso interlocutore dell’Aschenbach cinematografico è plasmato sulle forme dell’amico di Leverkühn, il musicista protagonista del Doctor Faustus alter ego di Arnold Schönberg, antagonista proprio di Mahler. Una ricercata manipolazione delle intenzioni, un fine gioco filologico che fanno di «un amore senescente di un artista verso un adolescente, ma scritto in modo molto pulito» (Thomas Mann), «la prima trasposizione cinematografica che coglie in pieno l’essenza di mio padre» (Golo Mann).
Ancora un capolavoro di estetismo, Ludwig, requiem per un re vergine (1972) racconta la breve vita di Ludwig Wittelsbach, sovrano di Baviera, salito al trono a diciannove anni: più interessato all’arte e alla musica di Wagner che agli affari di Stato, dilapidò la sua esistenza tra il voluttuoso e vuoto amore per la cugina Elisabetta (formidabile intuizione il cameo di Romy Schneider in una versione rivisitata e corretta della stessa Principessa Sissi protagonista di pellicole di ben diverso impegno e spessore), orge sfrenate e «una regale misantropia» a causa delle quali venne deposto, prima di essere trovato misteriosamente affogato nel 1886. È la materia ideale per Visconti, che non può non sentirla intimamente e librarla nella solennità della fotografia, nel cupo fasto della scenografia e dei costumi omogenei alla sceneggiatura.
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Seguendo questo filo conduttore, Gruppo di famiglia in un interno (1974) può essere letto come il testamento spirituale ed estetico di Visconti. Il film fu girato l’anno successivo all’ictus che ne aveva ormai compromesso la salute. Anche per questo il co-sceneggiatore, Enrico Medioli, scrisse un soggetto che potesse «venire incontro alle esigenze di Visconti: poter girare in un teatro di posa e in presa diretta» (Bruno Di Marino). Si tratta di un film malinconico, incentrato sulla vecchiaia e la solitudine di un anziano Professore assillato dai suoi daimon famigliari, ma anche di un tentativo di sublimazione del decadentismo borghese di cui svela l’irrevocabile fallimento «da godere fino in fondo al calice, con elegante e aristocratica misura, come l’ultimo privilegio di una memoria ritratta in vita, di uno scacco illusorio alla morte e alla decadenza che gli ultimi sussulti vitali della cultura della borghesia riescono a inscenare come spettacolo “barocco” e ritratto “ignobile”» (Maurizio Grande).
La decadenza e la crisi dei valori borghesi, l’ambiguità della Storia, il rapporto con la letteratura e la musica, il conflitto tra arte e vita e la seduzione della morte: sono questi i particolari di quel grande affresco cinematografico che è stata la vita di Luchino Visconti, la cui caleidoscopica attività di regista mirava, invero, a rappresentare le zone d’ombra della realtà con impareggiabile gusto estetico ma non estetizzante.
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