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“Lolita” e “Retàblo”: due incipit a confronto

Retablo, Vincenzo Consolo, Lolita, Vladimir NabokovTrovare corrispondenze, individuare relazioni più o meno profonde, scorgere influenze e citazioni, scovare echi, richiami e allusioni: tutto questo costituisce, nel campo della critica letteraria, uno dei terreni più fertili — nonché suggestivi — sui quali impiantare un discorso che abbia come scopo il fiorire di nuove interpretazioni. In quest’ottica del confronto, tesa a delineare (e delimitare) un piano di intersezione tra “insiemi” per certi versi lontanissimi tra loro, va letto questo tentativo di accostamento, apparentemente improbabile, tra gli incipit dei romanzi Lolita (1955) di Vladimir Nabokov e Retablo (1987) del recentemente scomparso Vincenzo Consolo.

Partiamo dalle differenze, o meglio, dalle “distanze” che separano i due libri. In primis, la distanza è cronologica, poiché s’interpone un intervallo di 32 anni tra le rispettive prime edizioni; in secondo luogo, è insieme geografica e linguistica, se si considerano e confrontano l’italiano del messinese Consolo con l’inglese del russo (ma cosmopolita) Nabokov; per finire, la distanza si compie nei contenuti, nello stile e, in senso lato, nel diverso background culturale degli autori. Senza addentrarci nel merito dei singoli libri, e delle vicende ad essi sottese, si ricordi, infine — e in estrema sintesi —, che, mentre Lolita racconta della scandalosa relazione (divenuta ormai topos) tra il professor Humbert Humbert e la dodicenne Dolores Haze, Retablo mette in scena, nella Sicilia di fine settecento, un complesso intrico di vicende che formano, interagendo tra loro, un vero e proprio “polittico” (o retàblo, da cui il titolo del romanzo).

Ma vediamo ora quali sono i punti in comune, proponendo di seguito — nel rispetto della cronologia editoriale — il celebre incipit di Lolita e l’attacco di Retablo:

«Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta.
Era Lo, semplicemente Lo al mattino, ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Lolita.»

«Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s'è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. […] Rosa che punto m'ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore.
Lia che m'ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell'inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l'ossa, limaccia che m'invischiò nelle sue spire, lingua che m'attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell'alma mia, liquame nero, pece dov'affogai, ahi!, per mia dannazione. […] Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei?»

Prescindendo, in un primo momento, dalle vistose differenze stilistiche, nonché dalle opposte conduzioni dell’impianto descrittivo, appare chiaro da subito il medesimo intento, la “molla” comune che dà fuoco alle polveri della narrazione. Consolo, alla pari di Nabokov, pone in posizione iniziale (fortemente marcata) il nome dell’amata, per poi ragionare sulla natura fonico-semantica del nome stesso, scomponendolo e “giocando” con le diverse suggestioni che si accumulano e assommano una dopo l’altra. Così come Nabokov disassembla il nome della sua Dolores in Lo-li-ta, evidenziando il movimento “meccanico” che la lingua compie nel pronunciare le sillabe, Consolo individua nel nome Rosalia due campi di significato, due “lasse poetiche” fortemente contrapposte e complementari, da cui far partire un’esasperata divagazione basata sulle sfere semantiche del “rodere” e del “legare” o “stringere”.
Chiaramente diversi risultano, nel complesso, gli esiti a cui conduce l’iniziale riflessione (in entrambi i casi assolutamente “espressionistica”) sul nome della bambina/donna amata. Se, infatti, il turbinio o vortice delirante — da cui i racconti prendono le mosse — è fatto per entrambi della stessa sostanza, ovvero l’ossessione irrazionale e disperata verso qualcuno di cui si può stringere ormai soltanto il nome, la “piega” successiva imbocca nei due casi una direzione diversa: rassegna di situazioni e frangenti in cui l’oggetto del piacere assume sembianze e nomi differenti, nel caso di Lolita; delirio accumulatorio, ludico e fortemente “barocco” nello stile poetico e nel lessico sovrabbondante di Retablo.

In conclusione, è proprio sul piano stilistico che si realizza lo scarto netto tra le due differenti “variazioni sul tema”. Sempre lucido e raziocinante, per quanto immediato e ingenuo, il periodare argomentativo e logico di Humbert Humbert approda a una soluzione finale, a un’immagine conclusiva che pare rasserenante: la sua “ninfetta”, se sembra scapparle dalle dita a causa delle numerose insidie (la scuola, l’età anagrafica, ecc.) che vorrebbero attirarla a sé, è pur «sempre Lolita» (perciò ancora o soltanto sua) quando si trova tra le sue braccia. Diverso l’approdo cui giunge Consolo dopo una serie di immagini che coinvolgono tutti i sensi, quasi a voler ribadire la più totale universalità dell’esperienza del ricordo di Rosalia nel protagonista. Isidoro, abbandonato dalla sua donna, pone in conclusione una domanda che, nel momento in cui è espressa, rivela istantaneamente tutta la sua inutilità e insensatezza, mostrando solo in quell’istante – come per “contrappasso” al confronto con la fiumana di parole appena versate – un silenzio e un’assenza assordanti.

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