Lo spirito è un mare immenso in “Le onde” di Virginia Woolf
Conclusa la stesura di Al faro nel 1927, Virginia Woolf s’impegna subito a partorire con dolore ed eccitazione l’idea del successivo romanzo che avrebbe pubblicato nel 1931. Le notizie relative alla gestazione di Le onde – edito da Einaudi nel 2014 a cura di Nadia Fusini – sono contenute all’interno dell’epistolario dell’autrice, in cui lei dichiara spesso di soffrire il montare delle onde, del peso dell’esistenza, su di lei, pronte ad abbattersi e a inabissarla nella loro forza incontrollabile; e sono molto interessanti le sensazioni di angoscia e fallimento che la scrittrice avverte, avendo in mente quest’immagine apocalittica. Ma subito giunge il senso concreto dell’esistenza animale a redimere l’ineluttabilità e l’incomprensibilità di una natura noverca: alla poderosa forza delle onde si va gradualmente associando, e poi sostituendo, nella mente dell’artista la figura della falena, che inizialmente avrebbe dovuto dare il titolo al romanzo.
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Delle falene la Woolf ammira la malia della luce e il contemporaneo disinteresse verso la morte incombente allorché raggiungono la fonte luminosa e vi si fondono. Questo romanzo, infatti, contiene in sé il senso di una lotta contro i limiti imposti dalla natura e dalla stessa esistenza umana, combattuta con le armi del sentimento e dell’immaginazione; inoltre, rappresenta la ricerca e la percezione della realtà spirituale che permea ogni singola vita umana e resiste anche dopo la morte: una realtà fatta di atomi pulviscolari, quindi della stessa consistenza del cielo quando si tinge di azzurro durante il giorno, ed è in grado di neutralizzare la morte. «Percival è morto, e Rhoda è morta, siamo separati, non siamo qui» afferma uno dei protagonisti, Bernard. «Eppure non riesco a trovare un ostacolo che davvero ci divida. Non c’è divisione tra me e loro. Mentre parlavo di loro sentivo: “Io sono voi”. La differenza, cui diamo tanta importanza, l’identità che tanto febbrilmente amiamo, era superata.»
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Le onde è il romanzo più sperimentale nella produzione woolfiana: non solo per il tentativo, comune all’epoca nelle varie branche delle arti, di immortalare il divenire e la mobilità dell’essere in tutte le sue sfaccettature – si vedano il cubismo, i movimenti d’avanguardia o il surrealismo nel campo delle arti figurative, e le ricerche di Joyce, Musil e Pirandello nell’ambito del romanzo –, ma soprattutto per ultimare quel processo di dissolvimento del narratore che il realismo inaugurò nel XIX secolo ed è ora sublimato per permettere alle coscienze, i reali soggetti delle elaborazioni artistiche del Modernismo, di costruirsi autonomamente attraverso la libera esposizione di memorie, sensazioni, descrizioni liriche. In questo modo Woolf può superare il monologo interiore diretto o indiretto, la tecnica narrativa già innovativa ma ugualmente bisognosa della mediazione del narratore, che aveva adottato in Al faro.
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Il romanzo si articola in nove interludi che descrivono con lucido e puntuale realismo psicologico l’intero arco di una giornata, dall’alba al tramonto, scandita non nelle ore, ma in base alla maggiore o minore ricezione della luce solare da parte delle varie entità naturali e in particolare di una casa che si affaccia sul mare. Tra gli interludi s’inseriscono i soliloqui dei sei protagonisti, Bernard, Susan, Rhoda, Neville, Jinny, Louis, in cui essi raccontano la propria biografia, la propria sensibilità, le proprie avventure e i propri desideri attraverso flussi di coscienza continui, imitativi dell’ondata di pensieri che investe ciascun personaggio quando è stimolato da un evento esterno che riporta alla memoria frammenti tratti da una condizione umana incommensurabile. Dai racconti che ciascuna anima fa di sé è possibile delineare un disegno dell’intreccio: i sei personaggi si conoscono in una struttura che ha i caratteri di un collegio, tra i banchi di scuola e nei prati in cui trascorrono l’infanzia con solidarietà e grande emotività. Durante l’adolescenza si registrano i primi allontanamenti traumatici: il mondo maschile e il mondo femminile, fino ad allora coabitanti, si dividono nel collegio di grado superiore, e non potranno più convivere se non in alcuni pranzi o cene che vengono raramente organizzate in età giovanile e adulta. Il collante fisico delle sei vite è Percival, un ragazzo conosciuto negli istituti superiori che ai tempi soprintendeva alle loro attività, con cui ognuno di essi intrattiene un rapporto esclusivo e personale: c’è chi vi vede incarnato in lui l’ordine come Louis, quindi un modello di perfezione; chi vi vede un ostacolo alla crescita personale, come Rhoda; chi vi vede «l’uno tra i mille» come Neville, innamoratosi di lui a prima vista. La morte improvvisa del ragazzo, avvenuta mentre gli altri sono venticinquenni, innesca una crisi generale negli animi dei sei personaggi, indotti a riflettere in maniera più serrata sull’esistenza umana e sui rispettivi destini. L’ultimo incontro concreto tra i sei amici avviene in occasione di una cena a Hampton Court: qui ciascuno, ormai giunto alle soglie dell’età senile, comprende e comunica con messaggi verbali e non verbali la sua personalità e il suo carattere agli altri, senza più tentare di corromperlo. La consapevolezza non detta, che rimane sottaciuta sino al lungo monologo finale di Bernard che è in realtà rivolto alla morte, è la risoluzione della vita di ciascuno nell’afflato comunitario del gruppo: pur concentrandosi sulle sensazioni, sulle emozioni e sulle prospettive personali, ciascuno comprende di essere parte di un ordine collettivo, rispetta quell’unione sancita in età infantile quando Louis si nascondeva tra le foglie e Jinny lo baciava sulla nuca, Neville lavorava al legno, Bernard consolava una Susan triste con le sue storie interrotte e Rhoda lasciava navigare i petali di un fiore in una bacinella piena d’acqua come se assistesse a una battaglia navale.
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Di grande importanza è il parallelismo che si instaura tra i sei personaggi e le scansioni del giorno: le loro età, infatti, sono associate alla vita di un giorno sulla terra. L’alba sta all’età infantile, che lancia uno sguardo sognante, incerto e ricco di potenzialità sulle cose del mondo; il mezzogiorno coincide con l’età giovanile e adulta, che osserva tutto con lucidità e profondità; il tramonto corrisponde, infine, alla vecchiaia, che porta con sé l’indefinitezza, l’oscurità e la risoluzione del particolare in un unicum indistinto, gettando una «luce priva di calore» sulle entità terrestri che è pronta a chiudersi nell’oscurità della notte, pur resistendo fino alla fine grazie alle gradazioni più ardenti e intense simili a quelle dei raggi del sole calante.
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Woolf, inoltre, avrebbe potuto chiamare la sua opera “Le note”, considerando il carattere corale e composito delle voci dei sei personaggi, ma è evidente come in realtà essa non sia un complesso di suoni, bensì una serie di movimenti perenni che s’innalzano, s’inarcano, s’inabissano e ritornano a galla senza morire mai, si fanno e si disfano come le onde sospinte dal vento e dalle maree. Come la massa d’acqua resta uniforme pur nel sommovimento delle singole onde che s’increspano, così le vite dei protagonisti appartengono a un’unica sostanza di cui ciascuno esprime declinazioni complementari seppur dissonanti, autentiche e involontarie seppur pensate e autocoscienti. Si scopre, insomma, il dato non tanto umano, quanto terrestre e naturale di ogni essere analizzato, e la sua innata vocazione al canto lirico, che rendono la vita umana non poi così dissimile da quella di qualsiasi altro essere vivente:
«Ognuno cantava da solo con passione e veemenza, perché il proprio canto comunque esplodesse, non importa se sciupava con la sua dissonanza aspra quella di un altro. Cantavano esposti senza riparo, all’aria e al sole, belli nel loro fresco piumaggio venato a conchiglia o a maglie lucenti, con una striscia qui di morbido azzurro, lì una macchia d’oro, o la riga di una penna vivace.»
Per la prima foto, copyright: Fezbot2000 su Unsplash.
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