Lo sguardo insostenibile. “La vergogna” di Annie Ernaux
La vergogna di Annie Ernaux – edito da L’Orma editore nella traduzione di Lorenzo Flabbi – porta a dignità di titolo il tema madre della scrittrice per la quale la critica ha parlato di autosociobiografia. Ernaux torna a casa, scende le scale che dalla sua stanza portano alla bottega di famiglia, si ferma lì e si mette a scavare. Quando si scava, si trova sempre qualcosa e a scavar bene di solito è qualcosa per cui proviamo vergogna. L’umiltà delle origini, il paese, il bar drogheria dell’infanzia, il dialetto patois, lo sguardo degli altri, l’ignoranza del proprio mondo. Un padre che fa esplodere la propria sottomissione in un feroce scatto di orgoglio, provando a uccidere la moglie davanti alla figlia di dodici anni, Annie.
«Più tardi siamo andati tutti e tre a fare una passeggiata in bicicletta nelle campagne dei dintorni. Tornati a casa, hanno riaperto il bar come ogni domenica sera. Non se n’è parlato mai più. Era il 15 giugno 1952. La prima data precisa della mia infanzia. Fino ad allora c’è solo un susseguirsi di date e giorni scritti alla lavagna e sui quaderni.»
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Siamo ancora e sempre ne Il posto, il libro delle origini dedicato alla memoria del padre che fece conoscere Ernaux in Francia nel 1983 e che l’ha imposta in Italia nel 2014. L’autrice ha raccontato che il libro era stato concepito come un romanzo e che le ci sono voluti sette anni per trovare la sua voce e approdare invece a uno scritto autobiografico senza traccia di fiction, scritto in prima persona singolare con quella lingua misurata all’osso che è diventata il suo tratto. La consacrazione è però avvenuta con Gli anni (2015) dove l’Io e il Noi, la prima persona singolare e la prima plurale, la memoria intima e la memoria collettiva, sono stati legati in maniera indissolubile attraverso la Storia e frammenti di immagini. Un lavoro da etnologa che è continuato con L’altra figlia (2016), la lunga lettera dedicata alla sorella morta e mai conosciuta, in cui Ernaux è arrivata a dire l’indicibile: «Io non scrivo perché tu sei morta. Tu sei morta perché io scriva.» È il ribaltamento dello sguardo, è lo sguardo insostenibile. In Memoria di ragazza (2017) ha raccontato senza traccia di sentimentalismo il primo vero incontro con un uomo, a diciotto anni, segnato dalla violenza sul corpo e dal principio controverso del desiderio. Con Una donna (2018) Ernaux ha fatto con la memoria della madre, morta da poco, quello che aveva giàfatto col padre: un lavoro di scavo che ha messo in luce i nodi di un legame ineluttabile, doloroso, fonte di antica vergogna.
«Ho sempre avuto voglia di scrivere libri di cui poi mi fosse impossibile parlare, libri che rendessero insostenibile lo sguardo degli altri. Ma quale vergogna potrebbe arrecarmi la scrittura di un libro, che sia all’altezza di quella provata a dodici anni?»
Con La vergogna, Ernaux torna a puntare lo sguardo là dove fa più male, su quel turbamento interiore mai del tutto sopito che si prova verso ciò da cui proveniamo. Partendo dalla scena di quel 15 giugno 1952, l’autrice ci porta nel luogo dell’infanzia, il paesino di Y., ci fa conoscere i genitori, entriamo nel bar drogheria e proviamo con lei quell’assenza di intimità – data dal continuo via vai della gente – in cui ha vissuto fino all’adolescenza, fino alla fuga.
«Ci vede mangiare, andare a messa, a scuola, ci sente lavarci in un angolo della cucina, pisciare nel vaso. Perenne esposizione allo sguardo altrui, che obbliga a mantenere una condotta rispettabile, a non manifestare le emozioni, rabbia o tristezza, a dissimulare tutto ciò che potrebbe suscitare invidia, curiosità, o che rischia di essere riferito.»
A Y. tutti sorvegliavano tutti. Bisognava conoscere le vite degli altri per poterle raccontare, riferire, ma nel contempo rendere la propria inaccessibile affinché non fosse raccontata. Un complicato equilibrio strategico fra «cavare le informazioni a qualcuno senza che se ne accorgesse» e, di contro, «non sbottonarsi in nessun modo, lasciarsi andare giusto su faccende di poco conto, che si possono sapere». Le vite degli altri venivano classificate nelle categorie del bene e del male, di ciò che era consentito, finanche raccomandato, oppure inammissibile. La massima riprovazione era riservata ai divorziati, ai comunisti, ai conviventi, alle ragazze madri e alle donne che abortivano. Un biasimo più moderato veniva espresso verso le ragazze incinte prima del matrimonio e le abitudini maschili in generale. Veniva lodato l’impegno sul lavoro che poteva bastare a riscattare altre cattive abitudini, la salute era considerata una virtù e la ricerca della solitudine un vizio grave, significava mostrare apertamente di non interessarsi a ciò che sembrava essere quanto di più interessante: le vite degli altri. La buona educazione era il valore dominante, il principio su cui si reggeva ogni giudizio sociale, ma era ritenuta inutile tra moglie e marito, tra genitori e figli e in generale percepita in famiglia come una forma di ipocrisia, come l’uso delle parole corrette.
A Y. il patois era diffuso in maniera diversa a seconda del quartiere, dell’età, del mestiere e dell’ambizione. In generale parlare bene veniva ritenuto uno sforzo eccessivo, cercare un’altra parola al posto di quella venuta subito in mente, non urlare, usare un tono più prudente erano accortezze ritenute superflue. Esistevano formule specifiche per dimostrare disprezzo senza far ricorso alle parole, quelle per esprimere i sentimenti non esistevano.
L’unica possibilità per Ernaux di sottrarsi a queste formule ed entrare nel mondo delle parole era la scuola – cattolica e privata –, una prigione diversa che lodava la fede, l’impegno e le buone maniere. L’emancipazione dalla vergogna passa attraverso l’eccellenza – «in questo mondo di eccellenza mi si considera eccellente»– e l’educazione prende la forma di un rapporto privilegiato e salvifico con l’insegnante – la signorina L. –, il contraltare della figura materna, il modello da emulare.
«Quando mi proibisce di rispondere subito per concedere alle altre la possibilità di intervenire o mi chiede di spiegare un’analisi logica, mi sta ponendo al suo livello. Interpreto l’accanimento con il quale infierisce sulle mie imperfezioni come un modo per farmi accedere alla sua stessa perfezione».
Usciti dai cancelli di scuola, Ernaux ci porta per mano per le strade di Y., spezza l’incantesimo della dolce topografia dei ricordi – composta tutta da colori e immagini – e la sostituisce con un’altra dalle linee dure, ma la cui lampante verità non può essere messa in discussione neanche dalla memoria.
«È lo stagno della ferrovia, il luogo in cui si cerca la morte a Y., le donne vengono fin qui dall’altra parte della città per annegarsi.»
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Ne La vergogna, Ernaux va ancora una volta oltre il dato autobiografico per portare un punto di vista sociologico sul tempo, le esperienze e i personaggi raccontati. La settimana era suddivisa in “giorni di” definiti da usanze collettive o famigliari e dalle trasmissioni alla radio. Il lunedì era giornata di avanzi, del pane del giorno prima e del concorso canoro Crochet radiophonique su Radio-Luxembourg. Anche il tempo della vita era scaglionato in “età per” in un succedersi di accadimenti che andavano dalle prime mestruazioni, al frequentare qualcuno, sposarsi, far figli, morire. In questo schema scrivere diventa l’unica possibilità di salvare ciò che è votato all’oblio, di fissare il tempo, ma diventa anche l’unica consolazione possibile, l’unico modo di esistere. Con un solo imperativo: scrivi solo ciò che sai. L’invenzione diventa così surrogato narrativo. Tutto ciò che non è esistito non va raccontato. Ma tutto ciò che è esistito e che viene scelto, viene raccontato per conoscere meglio se stessi. In questo conoscersi non si può evincere dalla questione.
«Ad alcuni uomini, in seguito, ho detto: «Mio padre ha voluto uccidere mia madre quando non avevo ancora dodici anni.» Avere voglia di pronunciare questa frase significava che ero innamorata. Dopo averla ascoltata hanno tutti taciuto. Mi accorgevo di aver fatto un errore, per loro era una cosa irricevibile.»
Et voilà, siamo allo snodo ultimo. Ernaux non abbassa lo sguardo nemmeno sul movente primo della narrazione femminile: il desiderio di raccontare all’altro, a un uomo, qualcosa di sé di irricevibile. Solo dopo arriverà la scrittura. Al termine de La vergogna, la sensazione è di doversi rimboccare le maniche e continuare a scavare pur sapendo che «non esiste un’autentica memoria di sé.»
Per la prima foto, copyright: Erik Mclean su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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