Lo sconfortante egoismo di un finto idealista. “Tutta un’altra vita” di Alessandro Pondi
Guardando Tutta un’altra vita, il nuovo film, da poco uscito nelle sale, di Alessandro Pondi con protagonista un bravissimo Enrico Brignano, sembra di essere catapultati davanti a un nuovo Verga, moderno, cittadino, confusionario, ma con alla base lo stesso ideale dell’ostrica che contraddistingue lo scrittore siciliano.
Il protagonista della vicenda è un antieroe per eccellenza, immobile nelle sue innumerevoli incapacità e disattenzioni. Tassista della periferia romana con a carico moglie e figli, ha con loro un rapporto inesistente, superficiale, caratterizzato da un senso di oppressione e insoddisfazione. La sua è un’incapacità di vivere il reale, con una quotidianità che annoia, che causa timore e diffidenza. Ciò che caratterizza tutto il film è la totale incapacità del protagonista di prendere in mano le redini della sua vita, cercando invece di ottenere una vittoria facile, un colpo di fortuna sperato e mai raggiunto. Un antieroe egoista travestito da sognatore che prova ad aprire un varco che sfoci in un mondo parallelo, in cui tutto è già pronto, in cui la realtà non esiste perché ciò che provoca piacere è proprio l’assenza del reale. È la finzione che causa la gioia del personaggio, il quale sembra accontentarsi di una soddisfazione momentanea ed effimera.
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L’ideale dell’ostrica verghiano sta proprio qui, in questa sostanziale immobilità del personaggio che non evolve, non cresce e non si sviluppa psicologicamente restando ancorato al suo pensiero. Ciò che traspare è il povero oppresso dal ricco, ma senza nessuna speranza che conduca alla possibilità di cambiare, di ribaltare la situazione grazie alle proprie forze. La quotidianità del protagonista verrà ravvivata dalla fortuita dimenticanza, da parte di suoi due clienti, delle chiavi di una sontuosa villa in cui abitano, permettendogli così di entrare di nascosto in quel mondo lucente dell’agiata società romana, fatta di feste, apparenze e malignità.
L’incontro con la bella Lola, porterà Gianni a voler essere diverso, ma senza mai davvero avere il coraggio di cambiare. Perché è semplice, e forse riduttivo, pensare che la morale del film sia un non tanto velato carpe diem oraziano, quando invece potrebbe esserci un messaggio ben più profondo. Poiché se un mondo ricco e patinato ha i suoi enormi limiti e la realtà della periferia non rinuncia a mostrare le sue fratture e disillusioni, dov’è il giusto limite? Qual è la via di mezzo che conduce alla felicità? Non è troppo semplice arrendersi a un’effimera consolazione invece di vivere il reale e lottare per renderlo migliore? Ed è qui che viene rivelata la grandezza di un film che non pretende di dare una risposta, lasciando forse la possibilità a ognuno di interpretarlo secondo la propria sensibilità.
In tutto ciò c’è un’ombra nel film, un personaggio secondario, senza nessuna battuta, ma di grande importanza: il papà cinese dell’amichetto di Annibale e Gaetano, i due figli di Gianni. Un uomo silenzioso, che non pone domande, ma che porta il figlio e i suoi amici al mare, quando il protagonista del film non lo fa perché troppo impegnato a godere abusivamente di una piscina altrui. È colui che viene spruzzato d’acqua e sotterrato nella sabbia, in sostanza è colui che fa il padre. Ed è questo personaggio, unito alla dedica che compare ad inizio film («a mio padre: la parte migliore di me»), che fa pensare quanto la realtà dovrebbe essere l’esatto opposto di quella presentata sullo schermo e che il vero eroe del film non sia il protagonista, ma quel papà cinese.
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La verità è che bisogna sempre cercare di essere e divenire una versione migliore di se stessi, senza rimanere ancorati a finti ideali, che servono solo come nascondiglio alla paura di agire, di muoversi, di rischiare e di riprovarci. L’immobilità e la gioia dell’effimero possono andare di pari passo, ma la realtà è che noi siamo uomini e come tali siamo fatti per sbagliare, per capirlo, per rialzarci e migliorarci, ogni giorno.
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