Lingua italiana e «zone grigie»: quando è giusta una correzione?
Esiste un rigido confine tra giusto e sbagliato? Fino a quando una correzione può essere ritenuta lecita e, quando, invece, risulta del tutto arbitraria?
In altre occasioni abbiamo paragonato il sistema linguistico a un'entità continuamente tesa fra la precisione del cristallo e l’irrequietezza della fiamma: concepirlo come un insieme di nozioni grammaticali è giusto – sono le regole che ne rendono perfetto il funzionamento –; considerare la stessa lingua estranea alla variazione è, però, altrettanto sbagliato: non solo per il semplice fatto che, se così fosse, oggi scriveremmo e parleremmo tutti uno stesso idioma in qualsiasi parte del mondo, ma anche perché intrattenere un uditorio, ad esempio, presuppone strategie linguistiche diverse rispetto a quelle previste per la stesura di un qualsiasi documento scientifico. Esistono testi, dunque; ma anche contesti: ed è con questi che chi parla e chi scrive è tenuto a relazionarsi.
Un insegnante, perciò, non potrebbe mai imporre a un alunno la forma “tutt’ora”, sol perché è quella registrata prima di “tuttora”, frutto di univerbazione successiva (e comunque più frequente oggigiorno); così come non potrebbe costringerlo a scrivere “di fronte” piuttosto che “difronte”.
Qui non si discutono quelli che Daniello Bartoli nel suo Il torto e il dritto del Non si può definisce “falli inescusabili”, vale a dire errori che contraddicono il regolare funzionamento del sistema linguistico, come *lava a io! *mangiare tu qualcosa e così via: si tratta di produzioni che, orali o scritte che fossero, causerebbero una forte reazione nel parlante (a meno che non dovessero provenire da non nativi); è un dato di fatto, in effetti, che ogni comunità linguistica interiorizza certe norme, un po’ come succede con le leggi: il paragone tra lingua e diritto è ripreso dal linguista Luca Serianni, che in Prima lezione di grammatica (Editori Laterza, 2010) lo chiarisce in questi termini:
«[…] Come il cittadino, anche digiuno di diritto, ha interiorizzato una serie di norme giuridiche, quelle fondamentali, ed è consapevole del confine lecito-illecito, così l’utente di una lingua, anche analfabeta, sa che alcune esecuzioni violerebbero irrimediabilmente lo statuto di quella lingua […] e sa che in altri casi esistono alternative più o meno indifferenti (si pensi ancora, per l’italiano, all’ampia tolleranza per pronunce regionali, specie in fatto di vocali aperte o chiuse: pésca/pèsca, bòtte/bótte)».
È da definire, piuttosto, il confine (di per sé non contornabile) di quella che Luca Serianni definisce “zona grigia” e che è costituita da una serie di risposte che non può ridursi a semplici “sì” o “no”: non siamo dinanzi a un problema di matematica, che pure potrebbe avere diverse soluzioni; abbiamo a che fare con la lingua, che è strumento di comunicazione, e, in quanto tale, prevede certo delle norme condivise da tutta la comunità, ma anche il rispetto di una storia che ha portato ad alternative diverse dalla propria.
Il problema della correzione si fa ancora più complesso quando il grigio diventa scuro: sappiamo, per esempio, che il plurale di “amico” è “amici” e che *amichi susciterebbe reazioni negative anche nei bambini: avremmo, però, la stessa reazione dinanzi a “psicologhi”, “chirurghi” e così via? Forse no. E che dire del tanto dibattuto “sé stesso”? Molti ritengono superflua l’accentazione di e, perché il monosillabo, rafforzato dall’aggettivo, non rischia di confondersi con la congiunzione omografa; lo stesso Luca Serianni, però, insiste sull’inserimento dell’accento, sia perché allora dovremmo scrivere anche *la dove (e non solo) sia perché “se” potrebbe essere confuso con il congiuntivo imperfetto del verbo “stare” in “se stessi”. Qui si propone persino una terza alternativa (non molto economica): scrivere “sé stessi” e “se stesso”; ma chi scrive sarà d’accordo?
Va considerata, dunque, pure la reazione del parlante; nel lungo periodo, s’intende: lo scrittore Roberto Saviano è stato aspramente (e giustamente) criticato per aver twittato “qual è” con l’apostrofo e per aver insistito in seguito riproponendo la stessa forma; se, per vari motivi, questo errore si diffondesse nel tempo e non fosse oggetto di dure critiche da parte della comunità, avrebbe persino possibilità di imporsi; una sorte simile potrebbe riguardare “po’”: oggi lo scriviamo con l’apostrofo, ma i casi con l’accento non sono pochi e il fatto che il cellulare non fornisca automaticamente la parola con il segno paragrafematico non è da sottovalutare: le generazioni attuali sono fortemente tecnologizzate e un certo lassismo da parte di chi dovrebbe intervenire potrebbe portare all’affermazione della forma oggi considerata errata. Si tratta di casi estremi, ma mettono bene in evidenza tutte le variabili che entrano in ballo quando bisogna fornire una risposta a un dubbio linguistico: in fin dei conti, è la comunità, con le sue scelte, a decretare il successo o l’insuccesso di certi usi.
Considerazioni del genere mettono bene in evidenza quanto sia difficile parlare di giusto e sbagliato in termini netti:
«Il lettore della ‘Crusca per voi’ – scrive Luca Serianni – è sensibile all’autorità di dizionari e grammatiche, ma in primo luogo – direi – alla norma linguistica interiorizzata, così com’è andata stratificandosi non tanto sulla base della propria esperienza di parlante, quanto sull’immagine di lingua che si è formata soprattutto negli anni di scuola. Di fronte alla richiesta di un sì o di un no, che non è quasi mai possibile soddisfare in termini netti, i linguisti nelle loro risposte tendono a storicizzare il singolo quesito, a inserire un particolare problema nell’alveo di tendenze evolutive di più larga gittata. Forse questo genere di risposta delude l’interlocutore – ed è questo che ci interessa maggiormente –, che si aspetta una diversa militanza in coloro che sono istituzionalmente addetti alla difesa della grammatica italiana».
Ma gli “addetti alla difesa della grammatica italiana” hanno l’onere (e l’onore) di dover andare oltre il fatto linguistico, contemplando l’idea che il linguaggio, e quindi la lingua come sua diretta espressione, sia prima di tutto un fenomeno sociale. La storia della lingua italiana – fino ad Alessandro Manzoni scritta e letteraria, decisamente lontana dalla dimensione orale – non è stata esente da riflessioni di questo tipo: valgano come esempio le considerazioni del già citato Daniello Bartoli, per il quale il vero grammatico – figura che ha avuto un peso notevole nella nostra tradizione linguistica più che in altre – è solo colui che usa accortezza nel condannare o accettare certi usi:
«[Agli esperti di lingua, ndr] non udirete uscir di bocca – scriveva –, se non se il fallo sia inescusabile, un di que’ NON SI PUO’, che in altri val quanto: NON MI PIACE».
Gli immancabili pedanti, i cui atteggiamenti sono criticabili quanto quelli dei meno attenti, devono farsene una ragione: a un certo punto, nel sistema di comunicazione le proposte sono diverse e parimenti accettabili (“sé stesso” e “se stesso”, per esempio), e nessuno – soprattutto insegnanti, linguisti e studiosi in genere – può imporre l’una o l’altra. Serianni racconta persino di un docente bolognese che rimprovera all’illustre Nencioni di essere stato ridondante, «scrivendo […] resterà anche in futuro (e l’accusato replica, senza perdere il garbo che gli è proprio: ‘se io dico o scrivo resterà anche in futuro, duplico certamente la nozione di futuro e compio una ridondanza; ma quell’in futuro intende specificare il futuro verbale, brachilogicamente, come un futuro non di domani o della prossima settimana, ma indefinito nel tempo’)». Si può arrivare davvero a tanto? Quell’“in futuro” era davvero così fastidioso da scatenare una critica del genere? Chissà.
Tra il torto e il dritto, dunque, la linea non può essere marcata: come si può pretendere di illuminare la zona grigia, se questa esiste perché la nostra è una lingua viva e, in quanto tale, si nutre degli apporti di tutta la comunità ed è immersa nel lento scorrere della storia?
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