Liberarsi del dolore. “Non è vero che non siamo stati felici” di Irene Salvatori
Risalire la china della propria esistenza, quando si è straziati al dolore, quando si perde la bussola e da qualsiasi punto si guardi la propria vita si preferirebbe sempre scegliere la morte, diventa quasi una missione impossibile. A meno che non esista qualcosa capace di superare anche la morte, e nel caso del libro d’esordio di Irene Salvatori, Non è vero che non siamo stati felici (Bollati Boringhieri) quel qualcosa è rappresentato dai figli. Dal momento in cui si diventa genitori a propria volta, smettendo di essere figli.
La protagonista del romanzo è una donna, madre di tre bambini, appena uscita da un periodo, durato quindici anni, che ha devastato nel profondo la sua esistenza: l’evento scatenante è stato la perdita dell’adorata madre, morta improvvisamente di cancro, che ha lasciato un vuoto incolmabile nella sua vita.
«Perché a noi ci è toccato lo scivolo del niente, l’altalena sul deserto, il parco giochi del Tumore che ha spento tutta la giostra»
Un arco di tempo lunghissimo, quindici anni, in cui la protagonista, credendo di fare le scelte giuste, inizia invece una lenta e inarrestabile discesa verso un inferno esistenziale. Disorientata, sola, sposerà un uomo sbagliato, che per tutto il libro è chiamato lo scarafaggio, e diventerà dipendente da quel matrimonio; nella sua incapacità di agire e discernere la giusta via da seguire, rinuncerà anche all’amore del Principe Piccolo, l’uomo che potrebbe portarla via da quella sofferenza ma, risucchiata dalla feroce spirale del dolore, la relazione non andrà avanti.
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Avrà tre figlioli con lo scarafaggio: i bambini la spingeranno a essere una buona madre, a mettercela tutta, tenendola a galla, come una prigioniera nella sua stessa casa ma, dall’altra parte, il ruolo di madre le farà dimenticare quello di essere anche una donna. L’iper-razionalità della protagonista, con una mente forte, che fa ragionamenti complessi, è ciò che le permette di continuare a vivere, di crescere i suoi figli, tuttavia le impedisce di trovare un accordo con il cuore, di arrivare a quella, tanto ricercata, chiave per la felicità.
Pressata dal vuoto lasciato dal lutto, e sforzandosi di vivere, la mente e il cuore della protagonista si lacereranno a tal punto che il dolore interiore inizierà a ripercuotersi sul corpo. Cominceranno gli attacchi di panico, la difficoltà a respirare, fino a che dovrà sottoporsi a una tracheotomia per potere rimanere in vita.
Lì inizierà la sua svolta: la donna si affiderà alle cure di uno psichiatra, che nel romanzo è chiamato Nemo, e intraprenderà con lui un viaggio sul Nautilus, per solcare gli oceani del suo passato, per fare il rendiconto delle sue scelte sbagliate e per cominciare a mettere ordine.
«Nemo mi ha portato indietro, con lui abbiamo guardato gli oggetti che si vedevano al di là dei vetri, le persone che capitavano, i quartieri di città che lui non conosceva e che dovevo raccontargli. Andavamo alla ricerca dei momenti da apnea, quelli in cui il respiro mi si fermava, i momenti del pericolo che mi facevano boccheggiare, che mi riavvicinavano a quando mi aveva trovato, quando mi aveva raccolto smarrita fuori da quel bosco. Abbiamo fatto un lungo viaggio, tanti piccoli passi compressi insieme che quando poi sono riuscita a metterli l’uno dopo l’altro me n’è venuta fuori una catenina di ossigeno e piano piano ho smesso di non respirare.»
La particolarità di questo libro è che è raccontato attraverso una lunga lettera che la protagonista scrive alla madre scomparsa. Uno sfogo che diventa liberatorio, parte attiva della terapia della rinascita messa in atto dal personaggio principale, ma anche un lungo, terribile, scavo nel dolore.
Con una scrittura precisa, poetica e profonda, Irene Salvatori sceglie di raccontare non tanto gli eventi, che emergono da soli, seppur con difficoltà, durante la narrazione, ma il modo in cui gli stessi hanno urtato emotivamente la vita della sua protagonista.
Per la maggior parte del romanzo, l’autrice fa largo uso di similitudini e metafore, non calandosi mai nel dettaglio dei fatti, ma piuttosto tendendo a concentrarsi sulle conseguenze e sulla sofferenza causata dagli stessi. Questa scelta, sebbene il romanzo sia scritto con un linguaggio che sfiora il sublime, rende difficile la comprensione e lo scorrere del testo. La sensazione è quella di trovarsi dentro una narrazione continua, senza scene che possano contestualizzare i personaggi, gli eventi, i luoghi.
Il dolore e la sofferenza sono espressi all’ennesima potenza e arrivano al lettore così diretti e crudi che lo rendono incapace di schierarsi a favore o contro una simile angoscia, che lo costringono a subire, a rimanere in ascolto di un lungo sfogo da parte di una mente solcata dalla paranoia. Perché l’autrice è stata bravissima a raccontare un dolore che non può essere compreso se non da chi lo sta vivendo, una sofferenza che diventa patologica.
«Dovrei uscire del tutto da te quest’anno, mamma, partorirmi, dirmi che non ci sei, che non so se tornerai e che questa è la realtà che mi è davanti, amen.»
La lunga lettera, che la protagonista scrive su delle vecchie agende appartenute alla madre, ha anche un senso più profondo: a mano a mano che la protagonista scrive, parlando alla madre defunta e allo stesso modo a se stessa, le pagine del diario si consumano e presto finiranno per esaurirsi, così come, allo stesso modo, forse terminerà tutto il dolore.
«Per tutti questi anni esistere senza di te mi sembrava un tradimento e invece vedi, esisto.»
I toni del romanzo, da metà in poi, si fanno più rilassati, la protagonista è riuscita a uscire dall’inferno ed è ferma in un purgatorio temporaneo, come in attesa del prossimo passo da fare: ha finalmente ha trovato la sua casa, la sua Heimat, un posto nel quale riesce di nuovo a respirare, a dare un senso alle gestualità quotidiane della sua vita. Un tratto di esistenza in cui lei gioca ancora in difesa, ma una crepa è stata ormai aperta, e la ricerca di quella chiave per vivere un nuovo futuro non sembra più impossibile.
«Scopro cose che non conoscevo. Non le conoscevo perché sono sempre salita sui treni in corsa, per questo mi sono scappate di mano perché ero io che scappavo, ma come cazzo ho vissuto finora, mamma, che vien da chiederselo e quando me lo chiedo ogni tanto vedo gli occhi di Nemo, che secondo me se lo chiedeva anche lui. Possibile vivere su un treno che corre? Ma poi verso dove. Forse man mano che il tempo subacqueo si allontana e le bolle che si sono alzate insieme si placano, forse recupero lucidità alle giunture e abbandono questa postura gravitaria da quadrumane.»
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Non è vero che non siamo stati felici di Irene Salvatori è un romanzo complesso e doloroso, che racconta tutte le sfaccettature di una sofferenza intima e profonda e che si spinge, con forza, fino in fondo a ognuna di esse. Ma è anche un libro che rivela, tramite una lunga risalita dal dolore, il legame primordiale e atavico tra una madre e una figlia, che non potrà mai cessare di esistere, nemmeno di fronte alla morte.
Per la prima foto, copyright: Fernando Brasil su Unsplash.
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