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“Lì dove si muore”, Antonio Muñoz Molina, da «El País», 14 marzo 2014

Hannah ArendtLí dove si muore è una terra, ma anche, ci suggerisce Antonio Muñoz Molina, un’idea che s’incarna e rinasce.

I cimiteri rappresentano una peculiare cartografia della memoria; luogo e ricordo ma anche  traccia granitica della manifestazione di uno spirito, di una volontà, spesso di un monito. È ciò che accade lungo le coordinate che legano il mappamondo dei viaggiatori solitari, che a volte sulle tombe indugiano come fa e racconta Muñoz Molina in questo articolo. Lontano da echi foscoliani, l’autore tesse una ragnatela fitta di rivendicazione sociale dei luoghi in cui alcuni esiliati illustri hanno scelto di rimanere dopo la morte. La terra in cui si muore dovrebbe essere sempre quella che ci merita e si merita e non sempre coincide con il posto in cui si nasce. Chi ha pagato con la lontananza e magari con la vita il prezzo della propria voce discordante e valorosa continua ad invitarci a fare in modo che il mondo smetta di essere improbabile miraggio per le idee migliori. È un grido che esce con forza anche dal silenzio liscio di certe lapidi lontane.

***

A due ore di treno da New York, verso nord, in una zona boscosa da cui si può vedere dall’alto il fiume Hudson nella sua ampiezza, c’è un piccolo cimitero in una radura tra grandi querce, un cimitero senza mura di cinta dove le tombe sono distribuite disordinatamente, alcune con croci, o con stelle di David, o senza simboli religiosi, lapidi di pietra o marmo innalzate sul suolo; altre sono lastre orizzontali, ci crescono attorno le erbe rigogliose dell’estate e in autunno spariscono sotto le foglie cadute. In quel cimitero, che fa parte dell’università di Bard, un amico mi segnalò alcuni anni fa due lose semplici con due nomi, due lapidi uguali, così essenziali e già così consunte dal passare del tempo che sarebbe stato facile non vederle. Avevano sopra quelle pietre che i visitatori lasciano per ricordo sulle tombe ebree. Su ognuna c’era scritto un nome, la data di nascita e quella di morte, il luogo d’origine e quello della fine.

Hannah Arendt

Hannover, 1906- New York, 1975

Heinrich Blücher

Berlino, 1899-New York, 1970

Altre informazioni non servono: in quelle date e nei nomi dei luoghi sono riassunti una parte della tragedia collettiva del XX secolo e i destini di due dei suoi protagonisti, la grande diaspora che li portò a vivere e a morire così lontano da dove erano nati. In quelle tombe è riassunto l’esilio, ma anche il trovare rifugio, la riconoscenza per l’ospitalità. Hannah Arendt fuggì da Berlino nel 1933 e fu inciampando negli ostacoli di un’Europa che per gradi successivi capitolava di fronte al totalitarismo fino a quando potè scappare dalla Francia occupata verso gli Stati Uniti nel 1941. A New York lei e il marito si rifecero una vita e si integrarono con estrema brillantezza nell’atmosfera illuminata della città, dove le figure autoctone si armonizzavano con i fuggiaschi europei, e tutti insieme crearono un formidabile splendore culturale la cui eco non si è spenta (la «New York Review of Book» è uno de lasciti di quel tempo). Per coloro che avevano attraversato l’Europa fuggendo dalla persecuzione e dal tracollo, un campus come quello del Bard College era una specie di miraggio improbabile: la maestà tranquilla dei boschi, l’ampiezza del fiume, gli edifici universitari  sparsi tra albereti e praterie. A me quei luoghi sono serviti per inventare un architetto spagnolo in esilio più o meno coetaneo della Arendt e di Blücher, che avrebbe potuto incrociarli nelle riunioni di facoltà di Bard, o notarli tra gli invitati a uno di quei parties formali che punteggiavano la vita accademica[1].

Anni dopo, un pomeriggio disabitato di ottobre, mi ritrovai a passeggiare per Hannover. Ero arrivato in treno da Amburgo. La finestra della mia stanza dava su un parco i cui castagni erano ingialliti presto. C’era ancora un po’ di sole ma l’aria aveva già in sé un freddo umido. Dalla mia finestra vidi, su una panchina del parco, una coppia di fidanzati o quasi fidanzati che si parlavano da molto vicino e si tenevano le mani, come fidanzati spagnoli di quarant’anni fa. Lui aveva i capelli nerissimi e ricci e gli occhi grandi, e lei, pure molto scura di capelli, portava un velo che le fasciava il viso, ma anche dei jeans.

Passeggiai per una via ampia, con edifici semplici e molto attraenti, di quell’architettura spesso magnifica degli anni Cinquanta che si vede in Germania. La si contempla con curiosità e ammirazione, e poi in un baleno uno si domanda cosa ci fosse prima in quelle stesse vie, sulle cordigliere di calcinacci che lasciarono i bombardamenti. Seguendo una via stretta, tranquilla, con edifici più vecchi, arrivai al muro di cinta di ciò che pareva essere un cimitero. Guardando al di sopra del muro, nella luce in declino, vidi tombe alte di pietra buia, rudi e verticali come dolmen, come tronchi d’albero in un bosco, circondate da alberi che le sprofondavano anzitempo in un’ombra di notte imminente. Girai intorno al muro in cerca di un’entrata. Trovai solo una porta stretta chiusa con sbarre, con chiavistelli e lucchetti rugginosi. Lì vicino c’era un cartello che riuscii più o meno a decifrare: quel posto era un antico cimitero ebreo.

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Federico Garcia LorcaAllora mi venne in mente l’altro cimitero, così lontano, nel quale era sepolta una donna nata ad Hannover, e tutto a un tratto, spinto forse dalla fragilità sentimentale di chi viaggia solo, ebbi un’intuizione fisica dell’enorme distanza che c’era tra un luogo e l’altro, tra quella città tedesca bella e silenziosa sul calare della sera e l’altra, la New York dove Hannah Arendt aveva brillato, ma non aveva voluto essere sepolta. Un filo unisce lungo i mappamondi quei nomi così distanti: la lontananza stessa è un monumento più eloquente di qualsiasi iscrizione. Chi visita quelle tombe ripete una parte del pellegrinaggio di coloro che lì giacciono.

Ogni tanto, con ottusa insistenza, qualche genio della politica decide di appuntarsi una medaglia con l’iniziativa di rimpatriare i resti di alcuni dei nostri morti illustri, quelli sepolti fuori dalla Spagna perché dovettero fuggire dal loro Paese e dall’odio omicida di alcuni dei loro conterranei, quelli che ricevettero ingratitudine in cambio della loro generosità e il cui talento o valore recarono offesa a quel tipo di spagnolo terrificante che nelle parole di Luis Cernuda, fa «la posta al pinnacolo/con una pietra in mano»[2]. Disprezzano l’intelligenza, il sapere e le arti, privano di sostegno i diritti legittimi di chi alle arti si dedica, chiudono le biblioteche, distruggono la scienza con i tagli e il teatro e il cinema con le tasse, proteggono la baggianata, riveriscono la paccottiglia del folclorismo identitario. Ogni tanto però assumono un’espressione meditativa e sublime e dichiarano che è arrivato il momento di riparare a un’ingiustizia storica, che bisogna riportare a casa le spoglie di Manuel Azaña da Montauban e quelle di Antonio Machado da Collioure, che si deve continuare a cercare le ossa di García Lorca, o aprire la tomba di Margarita Xirgu a Montevideo, o quella di Pedro Salinas a Puerto Rico. Immaginano, suppongo, processioni pompose, reportages pubblicitari alla tv di Stato, discorsi di ministri, segretari e sottosegretari, scritti nella prosa poetica conveniente da scriba prezzolati, catafalchi sontuosi.

Il posto giusto per Antonio Machado non è Siviglia né Baeza né Soria; è Colliure, così come per Manuel Azaña è Montauban, e per Walter Benjamin è Portbou, e per Hannah Arendt è una prateria in un bosco vicino al fiume Hudson. García Lorca si trova in una fossa comune e il dirupo di Víznar è la sua stele funeraria, lo squarcio di una ferita che non si può rimarginare. Se proprio vogliono fare qualcosa in memoria di Antonio Machado che aprano le scuole a un’educazione rigorosa e democratica come quella che lui sognava. E, già che ci sono, che pongano rimedio al vergognoso stato di abbandono in cui versano, a Baeza, il viale di Antonio Machado e il monumento a lui dedicato.



[1] La storia di questo esilio è raccontata da Muñoz Molina nel romanzo La notte dei tempi, N.d.T.

[2]Sono i versi che Luis Cernuda, altro esiliato illustre, dedicò alla morte dell’amatissimo amico Federico García Lorca, rivolgendo parole durissime all’odio e all’incomprensione della Spagna verso i propri talenti (la poesia è A un poeta muerto, F.G.L.), N.d.T.

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