Lewis Carroll al centro di un mistero
I delitti di Alice di Guillermo Martinez (Marsilio, traduzione di Valeria Raimondi) prova che i romanzi è facile, o non troppo difficile, iniziarli, ma faticoso terminarli. Un'ulteriore prova riguarda la specificità “gialla” a cui appartiene (sebbene tale attributo nel suo caso non suoni del tutto pertinente): prosa scorrevole, intrigo, suspense, ritmo, ma finale troppo sbrigativo e inconcludente. Se la letteratura “gialla” per paradosso ha il difetto di non avere difetti, in quanto avvince il lettore indipendentemente da preoccupazioni di stile, un vero difetto è quello di cedere, per la maggior parte dei casi, a epiloghi approssimativi (difetto che hanno pure i film “gialli”). Il perché dipende dall'esigenza, vien da dire l'obbligo, di offrire soluzioni finali, insomma risolvere il “caso”, cosa difficile da attuare proporzionalmente all'intensità, spesso pletorica, profusa nel corso delle “indagini”. Il romanzo “giallo” I delitti di Alice di Guillermo Martinez non fa eccezione, ma è pur vero che rispetto alla norma dei “gialli” ha qualcosa di più e di meglio.
Non si può parlare di originalità. Il modulo appartiene a una ormai consumata tradizione di letteratura romanzesca che trae spunto da pretesti culturali, molto spesso espressi da altri testi, o di letteratura stessa o di argomenti occulti, storici, medici, filosofici. Gli esempi più eclatanti e più riusciti di questo genere letterario che sonda il sapere, nelle sue forme popolari o elitarie, si possono individuare in Il Codice da Vinci di Dan BrowneneIl nome della rosa di Umberto Eco. Entrambi i romanzi inaugurano un nuovo modo di concepire la trama “gialla”: a indagare non è più il commissario di polizia o il detective privato, ma personaggi disciplinarmente collegati al contesto in cui si svolgono i fatti: uno storico dell'arte nel Codice da Vinci indaga il dipinto di Leonardo, e il monaco Guglielmo da Baskerville in Il nome della rosa indaga sui delitti consumati in un monastero. Simmetria cui non sfugge I delitti di Alice, i cui personaggi sono matematici come lo era Lewis Carroll, pretesto del romanzo.
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C'è pure un ispettore di polizia, ma il peso maggiore spetta agli anziani membri della confraternita che si dedicano alla vita e alle opere dell'autore di Alice nello specchio. In effetti alla fine il romanzo sembra imperniarsi più sulle dispute accademiche tra studiosi di Carroll, piuttosto che rivelare una trama “gialla”. Ne consegue una storia che inizialmente appassiona ma poi si affievolisce. Proprio quando dovrebbe esplodere si interrompe, perdendosi in soluzioni superflue.
Certa critica ha sottolineato come il contesto del libro dia spunto all’utilizzo di strumenti particolari nell’indagine, come il “metodo deduttivo”. Rilievo che a nostro avviso risulta avventato.
Il protagonista e voce narrante è un giovane matematico argentino (matematico oltre che scrittore è l'argentino Gulliermo Martinez) che sta trascorrendo un periodo di studi a Oxford. La faccenda in cui si troverà coinvolto, insieme ad altri matematici e cattedratici, ruota attorno a un presunto foglio strappato da un diario di Carroll, personaggio, come si sa, dalle sfaccettature equivoche. La domanda se Carroll fosse un vero pedofilo o un complesso e complessato esteta della purezza infantile è assillo che tormenta gli anziani confratelli.
Bisogna salvare l'onore dello scrittore, pastore religioso oltre che matematico e fotografo, autore di infiniti ritratti di bambine spesso nude. La confraternita degli studiosi, il cui presidente onorario è addirittura il Principe Consorte, è in subbuglio per via del frammento di una pagina di diario in cui Carroll sembra confessare la propria pedofilia. Tutto ruota attorno a questo lembo di documento rinvenuto da una giovane ricercatrice.
La parte più interessante del romanzo, a nostro avviso, è quella in cui emerge uno spaccato dell'età vittoriana che smentisce quanto si possa credere sulla sua intolleranza moralistica.
Apprendiamo che una bambina di dodici anni è già in età di matrimonio, e che allo stesso Carroll sembrò prospettarsi il matrimonio con Alice Liddell. Apprendiamo inoltre che fotografare una bambina nuda non suscitava quello scandalo che oggi è conseguente accusare. Fatto importante, nel romanzo, la sequenza delle foto scattate da Carroll di bambine nude, non tutte di mano dello scrittore ma anche opera di falsari.
“Il falso” in arte, come tale era intesa la fotografia dell'epoca, apre una parentesi interessante e che potrebbe maggiormente evolversi a ellisse metaforica, ma che invece non sembra interessare molto lo scrittore intento a voler sviluppare l'intreccio “giallo”. Le prime pagine del libro sembrano smentire questo approccio, propense invece a imboccare la strada tutta intellettuale della vertigine letteraria (il protagonista è un logico matematico e come tale si interessa ai sistemi formali della letteratura): tale quella impressa da Borges nel racconto, espressamente citato, Pierre Menard, autore del “Don Chisciotte” (scrittore inventato da Borges che scrive-non riscrive il testo di Cervantes che diventa il testo di Menard). Altre citazioni (non manca l'indicibilità della stessa matematica propugnata da Godel) portano a pensare a uno sviluppo prettamente concettuale mirato a dibattere la copia, la ripetizione, la falsificazione, del testo letterario. Non sarà così per il resto del romanzo, il che pare appropriato visto il rischio del concettuale di diventare astruso, ma che comunque in qualche modo spiazza il lettore semplificandogli fin troppo la lettura. Rimane la parte documentaristica del romanzo che ci rivela un Carroll che i suoi dotti connazionali vorrebbero casto, ispirato unicamente dall'arte e dall'ideale dell'infanzia innocente.
Al lettore di oggi sembra alquanto sproporzionato che valenti (anziani) studiosi si struggano nel dubbio della pedofilia di uno scrittore. La diatriba non appare così interessante. Ammesso che l'arte romanzesca si avvalga di qualsiasi pretesto per esprimersi e far breccia nel lettore, sorge il dubbio che il tema trattato da Martinez avrebbe guadagnato spessore se si fosse inserita dell'ironia a far da contrappeso alla serietà fideistica dei “parrucconi” difensori dell'arte e della morale del loro idolo.
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Si sente il bisogno di soluzioni narrative forti, grottesche, di passaggi in qualche modo diabolici, qualche “medievalismo” di riporto che evochi pratiche occulte o qualcosa del genere, meandri bui e opprimenti, invece tutto fila linearmente, non propriamente piatto ma senza colpi di coda che sollevino onde di tempesta. Né vale molto la simmetria dello studioso che di nascosto dai colleghi coltiva la passione di ritrarre anche lui bambine giurando di non averle mai toccate, né il dramma della coppia di professori che hanno perso la figlioletta di dodici anni suicidatasi dopo ripetute esternazioni di adorazione nei riguardi di Carroll. Sono triangolazioni che lasciano poco segno. Il romanzo non conosce ellissi, procede per geometria piana, tutto viene detto nel pieno delle facoltà narrative, lo scrittore non perde mai il passo. Non per questo il risultato appare negativo, la scioltezza della scrittura non si distanzia dalla piacevolezza, solo che non meraviglia, non colpisce, non va oltre l'omologazione delle “belle lettere”. Manca il mistero. Manca la vertigine.
Naturalmente avvengono dei delitti, di cui si tacciono modalità e finalità per non ostacolare l'aspettativa del lettore. La scoperta dell'assassino, come si è detto, appare più come interruzione che come elaborata agnizione. È qui che si avverte una certa ristrettezza inventiva. Fermo restando che si possa apportare al romanzo di Martinez una nota di merito nel definirlo non appartenente in pieno alla letteratura “gialla”.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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