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Leonardo Sciascia a 25 anni dalla scomparsa: cosa resta?

Leonardo SciasciaSono passati 25 anni dal 20 novembre 1989, il giorno della scomparsa di Leonardo Sciascia. Venticinque anni in cui si è chiuso quel “secolo breve” che lo scrittore nato a Racalmuto ha attraversato per buona parte e sono trascorsi pure i cosiddetti Anni Zero, tenuti assieme, più o meno ai due estremi, dall’11 settembre e dalla crisi in Grecia.

Considerata la ridotta distanza critica, è dunque tanto più difficile ricordare Sciascia e provare a tratteggiare un paesaggio costituito da ciò che di lui è rimasto e quanto, invece, si è perduto o è stato adombrato. Due illustri candidati a farci da guide, in questo difficile attraversamento, potrebbero essere il titolo di una raccolta di interventi giornalistici, uscita postuma, e l’epitaffio sulla tomba dello scrittore. Il primo, A futura memoria (se la memoria ha un futuro), epigrammatico e oracolare, come un consuntivo della capacità di Sciascia di leggere passato e presente con disillusione e spirito di indipendenza; il secondo, «Ce ne ricorderemo, di questo pianeta» preso in prestito da Auguste de Villiers de L’Isle-Adam, attraverso il quale Sciascia sembra sconfessare la propria convinta adesione alle prerogative della ragione. Tuttavia, come annota Matteo Collura in L’isola senza ponte. Uomini e storie di Sicilia (Longanesi, 2007), tale scelta fa sì che il racamultese aderisca, come scrive lui stesso, e forse in un soprassalto di ironia, alla “scommessa” di Pascal sull’esistenza di Dio.

In effetti, anche a uno sguardo superficiale e aneddotico, la vita di Leonardo Sciascia appare improntata al tentativo di sanare lo iato irriducibile tra il fluire delle cose del mondo e la necessità di fissare confini, stabilire connessioni, mettere in relazione pezzi sparsi di un puzzle. Ed è, questo, un motivo di difficoltà in più nel dire cosa rimanga, di questo maestro, a 25 anni dalla scomparsa e cosa invece possiamo, ormai, dire perso, con grande rammarico.

Sciascia trascorre gli anni dell’infanzia nel paese natale, salvo trasferirsi, nel 1935, a Caltanissetta, luogo centrale per la sua formazione scolastica superiore. All’istituto magistrale conosce due figure che imprimeranno un segno indelebile su di lui, Vitaliano Brancati e Giuseppe Granata. Dopo il diploma, troverà un impiego presso un consorzio agrario, lavoro che lascerà nel 1948. Gli anni Cinquanta lo vedono dedicarsi stabilmente all’insegnamento e alle prime prove d’autore. Favole della dittatura è del ‘50, La Sicilia, il suo cuore del ‘52: nelle prime ci si muove nel solco di Esopo, la seconda è l’unica raccolta poetica di Sciascia, mentre al 1956 risale Le parrocchie di Regalpetra. L’anno successivo muore il padre dello scrittore, e comincia a essere chiaro che l’attività di “intellettuale” potrebbe sostituire a tutti gli effetti quella di maestro, anche grazie alla partecipazione di Sciascia a riviste come «Galleria» (che aveva contribuito a fondare, nel 1954). Tra il ‘57 e il ‘58 chiede un distacco, prima a Roma e poi di nuovo a Caltanissetta, presso un patronato scolastico.

Il 1958 è l’anno in cui l’autore giunge alla pubblicazione con Einaudi, nella collana I gettoni, ideata da Elio Vittorini, con Gli zii di Sicilia, che raccoglie tre racconti, La zia d’America, Il Quarantotto e La morte di Stalin e che conoscerà nel 1961 un’edizione ampliata, con l’aggiunta di un quarto racconto, L’antimonio. Nella seconda metà degli anni Cinquanta continua a fiorire l’attività di critico letterario di Sciascia, con una serie di saggi che troveranno sistemazione organica, in buona parte, nel volume Pirandello e la Sicilia (1961).

È facile comprendere come la facies sciasciana relativa alla narrazione pura non si possa mai disgiungere da quella attinente alle riflessioni saggistiche e giornalistiche. Nell’intellettuale di Racalmuto l’intreccio fra cronaca, finzione, dato storico, divertissement e speculazione intellettiva è fittissimo, inestricabile. Questo è, di certo, uno degli elementi che permangono e che, talvolta, ne consentono una sbrigativa, quanto sconsiderata, lettura come “scrittore poliedrico”. Se è vero che Sciascia si concede, spesso e volentieri, all’ebbrezza della forma mista, è altresì da considerare la complessiva e straordinaria coerenza del suo corpus.

L’uscita, nel 1961, del “giallo” Il giorno della civetta, apre con decisione una nuova stagione. Nel ‘63 sarà la volta de Il consiglio d’Egitto, incentrato sul personaggio di un abate falsario, e tre anni dopo sarà dato alle stampe A ciascuno il suo, nuovamente aderente ai moduli del giallo. Nel 1969 Sciascia darà avvio alla sua storica collaborazione con il «Corriere della Sera», evento che precederà di poco la pensione, nel 1970, lo stesso anno in cui viene pubblicata una raccolta di saggi, La corda pazza. Il riferimento, chiarissimo, è a Il berretto a sonagli di Luigi Pirandello, con la teoria di Ciampa secondo la quale «abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa», la seria, la civile, la pazza; la prima delle quali ci permette di vivere in società, la seconda che entra in funzione quando la prima non basta più, e la terza, quella pazza, che ci colloca, al di là di ogni remissione e senza altro a pretendere, dritti filati fuori dal consesso sociale. Vi sono pagine, in La corda pazza, che forse sono andate perdute, dal punto di vista della memoria letteraria, o che magari la vulgata d’oggi non trasmette, ma non è possibile dimenticare, soprattutto per chi, fra “sicilitudine” e “isolitudine”, rischia seriamente di rimanere invischiato. Alcune di queste pagine sono quelle di Feste religiose in Sicilia, in cui Sciascia riflette sul “sentimento della santità”, potremmo dire, in Sicilia, più di una volta tanto vicino al “sentimento del contrario” pirandelliano e, in particolare, su quel modo «assolutamente irreligioso, di intendere e professare una religione che pure è fermamente, rigorosamente e minuziosamente codificata in ogni atto del culto interno ed esterno» e che trova radici in un «profondo materialismo, in una totale refrattarietà a tutto ciò che è mistero, invisibile rivelazione, metafisica».

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Leonardo SciasciaDel 1974 è invece Todo modo, straordinaria riflessione, ancora una volta sullo sfondo di un giallo, sul potere e sulla politica, in particolar modo quella democristiana. È proprio negli stessi anni, che lo scrittore si candida alle elezioni comunali palermitane nelle file del PCI, risultando eletto; in seguito, alcuni forti contrasti con la dirigenza lo condurranno alle dimissioni da consigliere. Solo nel ‘79 accetterà di candidarsi con il Partito Radicale e, dopo l’elezione sia al Parlamento europeo che alla Camera, manterrà la carica di deputato fino al 1983, partecipando ai lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta dell’ottava legislatura sulla strage di via Fani, sul sequestro ed assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia.

Gli ultimi anni della vita di Leonardo Sciascia lo vedono ancora fortemente impegnato, nonostante il progressivo peggioramento delle condizioni di salute: al 1983 risale la terza raccolta di saggi, Cruciverba, che riunisce scritti già apparsi in riviste e giornali, o come prefazioni, e non manca un ulteriore ritorno al giallo, con una specie di trilogia “finale”, costituita da Porte aperte (1987), Il cavaliere e la morte (1988) e Una storia semplice, uscito proprio il giorno della sua morte. Del 1989 è anche la quarta ed ultima raccolta di saggi, Fatti diversi di storia letteraria e civile, nella quale è incluso un brevissimo saggio, Il ritratto fotografico come entelechia, che ci permette di far riferimento al rapporto di Sciascia con l’arte fotografica. Tale saggio, infatti, era apparso già come prefazione al catalogo della mostra Ignoto a me stesso, curato da Daniela Palazzoli nel 1987; in esso l’autore cerca di ripercorrere le orme che il termine “entelechia”, per lui ideale rappresentazione del ritratto fotografico, ha lasciato nella sua memoria. In poche pagine, Sciascia compie un viaggio da La camera chiara di Roland Barthes fino ai ritratti di Pasolini ad opera di Dino Pedriali e, se sono importanti tutte le tappe di questa rapidissima trasferta, cruciali sono gli estremi, il punto di partenza e quello di arrivo, vale a dire proprio Barthes e Pasolini, grazie ai quali Sciascia può costruire una cornice alla sua (post)moderna indagine sull’ontologia della fotografia. Del resto, una ricognizione delle connessioni fra Sciascia e la fotografia richiederebbe molto più spazio e una considerazione sistematica (come è stato fatto nel volume Sicilia negli occhi. I libri fotografici di Sciascia dalla A alla W, curato da Maria Rizzarelli, Mariagiovanna Italia e Simona Scattina, uscito per Bonanno nel 2010).

Quel che possiamo trarre e mettere in evidenza è la sostanziale “visività” nelle opere di Leonardo Sciascia e nella sua concezione della scrittura. Ed è proprio l’atto della visione che ci guida all’altra grande “arte” che ha punteggiato la vita di Sciascia: il cinema. Un intervento, per tutti, quel Il volto sulla maschera, pubblicato per la prima volta nel 1980 e poi incluso in Cruciverba, all’interno del quale il film di Marcel L’Herbier Il fu Mattia Pascal del 1926 (ed ecco che ritorna, senza sosta, Luigi Pirandello) e il suo protagonista Ivan Mosjoukine danno l’occasione a Sciascia per farci conoscere l’incredibile (e molto letteraria) storia di Romain Gary (figlio di Mosjoukine) che parte da uno pseudonimo, Gary, appunto, e in un gioco di specchi transita almeno per altre tre identità, più o meno letterarie, Fosco Sinibaldi, Shatan Bogat, Emile Ajar, in un progressivo rimbalzare tra una e l’altra, sino al suicidio, nel 1980.

In qualche modo, escluso il suicidio, è stato ciò che ha fatto Leonardo Sciascia nelle sue opere: nascondersi dietro alter ego speculativi, dietro “ragionatori” indefessi, seminando il lettore ma, allo stesso tempo, cercando disperatamente di rimanere il più possibile vicino a se stesso. E questo è forse ciò che resta, più di ogni altra cosa, di Leonardo Sciascia, a 25 anni dalla scomparsa. 

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