Leggere “Racconti dal Dakota” di Hamlin Garland nell’era dei big data
Dopo Racconti dal Mississipi D Editore prosegue il viaggio lungo la frontiera americana raccontata dal premio Pulitzer nel 1922, Hamlin Garland, con Racconti dal Dakota. Sfoglio i sei racconti della raccolta curata da Valerio Valentini ed è come tornare indietro nel tempo. Il libro stimola la riflessione e decido di incamminarmi in un personalissimo viaggio tra idee, libri e tribù indiane del diciottesimo secolo.
Sono sul carro de Il raccoglitore di panna (il secondo racconto), in giro per i villaggi sorti sui territori un tempo degli indiani Dakota conosciuti anche come Sioux. Con me ho una chitarra, suono This land is your land di Woody Guthrie, e ripenso a questi nomi. Dakota (o Lakota) significa “amico”, “alleato”. Sioux significa “meno che vipera”, termine dispregiativo usato da una tribù avversaria in risposta a una domanda degli esploratori francesi. Gli indiani Dakota erano, per quella tribù, meno della “vipera intera”, ossia la tribù degli Irochesi.
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Il mio personalissimo viaggio parte da qui, dalla duplice natura di quella tribù: amici e collaborativi tra loro, nemici in competizione con quella poco più in là. I nomi che diamo alle cose hanno il potere di creare l’identità per cui lottiamo o contro cui combattiamo. Nei racconti di Garland serpeggia la costante del rapporto complesso tra le parti; in un mondo di frontiera dove le regole sono labili, chi collabora con chi? È la necessità a formare un gruppo o il genuino amore cristiano per il prossimo?
Garland riesce a trasportare il lettore nella dimensione del racconto grazie alla tecnica del milieu; scene dipinte con pennellate grosse, quasi impressioniste, per esaltare il ruolo dello sfondo. Non a caso Racconti dal Dakota, perché è il sogno americano il filo rosso che ci accompagna per tutto il libro. Ogni personaggio deve confrontarcisi, con un grande desiderio da realizzare o con le conseguenze dovute al non averci prestato attenzione.
Lo stesso autore nella premessa ci introduce la tematica della denuncia sociale, frutto di un percorso che ricorda i vagabondaggi americani di Jack London:
«Scrissi ininterrottamente per i due anni seguenti, dove ebbi l’opportunità di viaggiare per tutto il Midwest e accertarmi che gli Stati Uniti trattavano ogni colono con lo stesso, miserabile cinismo.»
Mi viene in mente un’immagine: il quadro del trattato di Penn con gli indiani, di Benjamin West del 1772. La storia insegna che i colonizzatori europei comprarono i territori vergini dei nativi americani per qualche decina di dollari, probabilmente in beni di consumo. Con il senno di poi noi, occidentali contemporanei, li ricordiamo come dei poveri ingenui che hanno fatto arricchire un potere geopolitico a tutt’oggi influente. William Penn si accordò con il capo Tammany e da quel patto sorse la Pennsylvania. Addirittura, si pensa che l’isola di Manhattan sia stata venduta dagli indiani Lenape a un valore di circa mille dollari di oggi. Che sciocchi dovevano essere quegli indiani. Eppure, anche noi, in un certo senso, il trattato con Penn l’abbiamo già firmato, senza pensarci troppo, consegnando tonnellate di informazioni anagrafiche e sul nostro comportamento in Internet a grandi società, magari anche statunitensi.
Racconti dal Dakota è un libro del passato, ma mi fa pensare al futuro. Penso a quale sarà il prezzo che dovremo pagare un giorno per riavere indietro la nostra privacy, le informazioni che definiscono la nostra identità. Nel 2012 i discendenti di alcune tribù Sioux hanno dovuto mettere assieme 9 milioni di dollari per (ri)comprare un appezzamento sulle Black Hills, una regione del South Dakota, considerata dai nativi americani una terra sacra. La domanda che salta fuori è evidente: le corporazioni dell’alta tecnologia dovranno girare un secondo Balla coi lupi sui paesaggi virtuali delineati dalle schiere dei nostri dati prima che ci si renda conto del valore di quel che abbiamo barattato?
Cito me stesso per poi fare un agghiacciante passo in avanti nel ragionamento:
«Saper pensare il paesaggio è fondamentale e lo è ancor di più se si pensa ai soggetti finzionali di un romanzo e al loro rapporto col paesaggio in quanto soggetti. Viene in mente il sistema di credenze degli aborigeni australiani, secondo cui le nozioni del corpo e delle parti del corpo sono sempre associate alle forme del territorio. In maniera, forse, non troppo dissimile dai miti greci sulle metamorfosi in piante o stelle.»
Se per l’uomo contemporaneo il corpo e il territorio sono enti distinti e, anzi, sembra arcaico e folle tornare ad associarli, forse un giorno, i nostri dati anagrafici e i nostri comportamenti non ci definiranno più. Non importerà più a nessuno che tu sia nato in Italia o altrove. Se sia giusto oppure no non oso dirlo, ma mi riporta a William Penn. Non molti sanno che fu il primo a scrivere di un’Europa unita in un unico parlamento.
C’è anche chi aveva parlato di Africa unita. Questa mia riflessione letteraria partita se volete dal Dakota e passata per la Pennsylvania mi ha condotto a Exodus. I tabù dell'immigrazione di Paul Collier, un manuale di bordo per navigare in questa crisi migratoria, che è entrato nella mia top ten di saggistica e mi ha fatto immaginare un futuro di scambi equi di città in affitto, di titoli di stato, di brevetti e di know-how. Il tema dello scambio e degli “amici” Dakota mi ha portato a The Complexity of Cooperation: Agent-Based Models of Competition and Collaboration, altro caposaldo della saggistica, di Robert Axelrod, sulla teoria dei giochi. Il cerchio finalmente si chiude dato che il libro sul dilemma del prigioniero è stato pubblicato dalla Princeton University Press e, la leggenda vuole, che l’università di Princeton sia sorta proprio sul terreno dell’accampamento indiano del capo Tammany.
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È incredibile come i libri possano condurci in viaggi affascinanti fatti di altri libri e di idee, sicuramente Garland è un autore da riscoprire nell’era dei big datae capace di stimolare la riflessione. Ora la domanda è chissà quali altre peregrinazioni letterarie potrà suscitare nei lettori.
Per la prima foto, copyright: Franki Chamaki su Unsplash.
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