“Le voci di dentro” di Eduardo De Filippo. La tragedia di una famiglia comune
Il drammaturgo partenopeo Eduardo De Filippo scrisse una delle sue opere più cupe, Le voci di dentro, contenuta nella raccolta la Cantata dei giorni dispari, nel 1948.
Alberto Saporito, un tempo famoso apparecchiatore di feste popolari e ora caduto in disgrazia, crede che la famiglia Cimmaruta, sua vicina di casa,abbia commesso un brutale omicidio. Per questo motivo, con la complicità dello scaltro fratello Carlo, decide di denunciarli. Dopo l’arresto dell’intera famiglia, Alberto si lancia alla ricerca delle prove del crimine commesso, quando, improvvisamente, non trovandole, esclama in presenza del portiere Michele:
«Miche’, io me l’aggio sugnato! Ma così naturale! […]. Un sogno così inciso, preciso!»
Quindi Alberto ha sognato il delitto. Ritira così la denuncia e l’intera famiglia è libera di ritornare a casa. Stranamente, nessuno però è convinto della versione del sogno, anzi i Cimmarutacredono che un membro della famiglia si sia macchiato del delitto. Per tale motivo, uno a uno, fanno visita ad Alberto per cercare di convincerlo a confessare la verità.
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Al centro del dramma, ancora una volta, c’è un nucleo familiare. La visione che Eduardo De Filippo ha della famiglia non è certo idilliaca: essa non è altro che il campo di battaglia dove si consumano gli scontri più atroci e violenti. E anche in questo caso ci racconta di una famiglia disgregata, tanto che basta un sospetto, una “voce di dentro”, a far emergere antichi rancori e vecchie frustrazioni.
La vecchia zia Rosa è la prima a fare visita ad Alberto; ella gli confessa che l’assassino è lo sbandato e sfaticato nipote Luigi.
«Io lo vedo così sbandato questo ragazzo. Si vorrebbe occupare, sissignore, ma non trova niente di conveniente per lui. E poi fa certi discorsi, così sfiduciati. […]. E poi ha questi, diciamo, questi atteggiamenti che io, alla mia età, alla verità, non capisco.»
Dopo l’uscita di scena di Rosa, entra Luigi che dichiara spietatamente che le autrici del crimine sono la zia e la sorella Elvira.
«Mia zia tiene una camera chiusa dove non fa entrare mai nessuno. Una specie di laboratorio. Là dentro vi fabbrica sapone e candele. Le conseguenze e le conclusioni, traetele voi.»
Pochi anni prima la stesura del dramma, l’Italia venne sconvolta dal caso della “saponificatrice di Correggio”: Leonarda Cianciulli uccise tre donne sciogliendole poi nella soda caustica. Luigi crede che anche la zia e la sorella si macchino di orrendi delitti e facciano poi scomparire i cadaveri trasformandoli in sapone e candele.
La processione della famiglia Cimmaruta a casa Saporito è appena cominciata. Mentre la giovane Elvira pensa che il delitto l’abbia commesso il fratello, il patriarca Pasquale non esita ad ammettere che la sola responsabile del crimine è la moglie Matilde. Ella per mantenere la famiglia, in un periodo di forte depressione e crisi generale, pratica la divinazione diventando, in poco tempo, famosa in tutta Napoli; Pasquale, però, crede che questa professione sia solo una copertura perché è convinto che la moglie, in realtà, si prostituisca. In ultimo arriva Matilde, la quale accusa del crimine il marito: un fannullone che vive come un parassita alle sue spalle, un uomo che non ha nessuna intenzione di trovarsi un lavoro e che vuole da lei sempre più soldi per coltivare i suoi vizi.
Alla fine del dramma scopriamo che la famiglia Cimmaruta ha commesso, in realtà, un grave crimine nel momento in cui i vari membri hanno deciso di non comunicare più tra di loro. La causa scatenante, per Eduardo De Filippo, di tutti i mali che sconvolgono l’unità della famiglia è l’assenza di dialogo. I Cimmaruta si confidano, senza peli sulla lingua, con l’estraneo Alberto e trovano così difficile parlare tra di loro. Anche se nel terzo e ultimo atto si coalizzano per mettere fuori gioco Alberto, che non si decide ancora a confessare, questo non significa che tutto si sia chiarito, anzi continuano a credere che uno di loro abbia commesso l’omicidio.
«Voi mò volete sapere perché siete assassini. […]. In mezzo a voi probabilmente ci sono io pure e non me ne rendo conto. Avete sospettato l'uno dell'altro. [...] . Io vi ho accusati e voi non vi siete ribellati, lo avete creduto possibile. Un delitto lo avete messo fra le cose probabili di tutti i giorni; un assassinio nel bilancio di famiglia! La stima, don Pasqua', la stima! [...]. Don Pasqua’, senza la stima si può arrivare al delitto e ci stavamo arrivando!»
L’assenza di dialogo e la mancanza di comprensione hanno portato i Cimmaruta a non fidarsi più gli uni degli altri e, cosa ancora più grave, a non stimarsi. Ecco perché hanno ritenuto possibile che un membro potesse commettere facilmente un crimine: perché nella loro famiglia non c’è più la stima reciproca. Di questo grave delitto si è macchiato pure Alberto: anche lui è colpevole perché ha creduto possibile che una famiglia, che conosce da anni, potesse aver commesso un assassinio. Alla fin fine Alberto dimostra di non stimare affatto i Cimmaruta.
Pasquale
Sapete la gente com’è?
Alberto
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In questo dramma pieno di cinismo e sconforto Eduardo De Filippo descrive un’umanità divisa in singoli individui sempre più distanti tra loro. La mancanza di dialogo e di comprensione, la malafede e l’assenza del rispetto reciproco e della fiducia minacciano e corrompono spietatamente l’anima e, a causa di ciò, l’essere umano può essere capace di tutto, anche delle azioni più turpi, come, ad esempio, il delitto.
Ecco allora spiegato il motivo per cui lo zio di Alberto e Carlo,“Sparavierzi”,ha deciso di chiudersi in un mutismo assoluto, rifiutando ogni possibile contatto con il prossimo: l’umanità è «fatta molto male» e, per questo motivo, è insalvabile.
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