Le tenerissime e commoventi lettere di Silvio Pellico a Ugo Foscolo
Siamo nel 1810 quando Silvio Pellico incontra Ugo Foscolo a Milano grazie all’intercessione di suo fratello Luigi. In breve tempo ne divenne prima collaboratore e poi uno dei suoi più stretti amici, al punto che nel 1815, sul punto di dover abbandonare la sua terra per l’esilio, il poeta affidò a Pellico un baule contenente manoscritti e vari documenti personali.
Lo scambio epistolare tra i due è di rara intensità e testimonia la profonda amicizia che legava Silvio e Ugo, insieme al rapporto di fiducia che sempre animò tutti i loro scambi.
Qui di seguito vi proponiamo le lettere che Silvio Pellico inviò a Ugo Foscolo a partire dall’inizio dell’esilio di quest’ultimo.
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7 maggio 1815.
Caro Ugo.
Due giorni dopo la tua partenza, venne Giulio a Milano che non sapeva niente. Gente di polizia fece ricerca della tua roba. I tuoi libri erano già presso di me; i bauli ecc., in una casa ove Agapito ha stanza, e donde tuo fratello diede ordine ad Ottolini di ritirarli. Il tavolone e la cassetta da rimettersi a Monsignore li ho consegnati al barone perché quello era andato a Torino.
Nella lettera che segue, Silvio testimonia la sua vicinanza all’amico Ugo.
17 ottobre 1815.
Caro Ugo.
È gran tempo che non ho lettere di te. Trechi mi disse ultimamente che la tua salute è ristabilita. Hai tu pace in coteste montagne? Dimentichi tu, conversando colle Grazie, le nostre sciagure?
[…]
Scrivimi, ed amami. Io t’amo di cuore, di vero cuore.
La lettera del 18 gennaio 1816 è indirizzata a Lorenzo, il nome il nome assunto da Foscolo in Svizzera. Si trattava però di uno pseudonimo assai trasparente, essendo a tutti noto che Lorenzo Alderani è il nome dell’Amico di Jacopo Ortis che si finge editore delle sue Ultime lettere. Nella lettera Pellico fa riferimento a una possibile incomprensione tra i due.
[…]
Darei il mio sangue per te: mi sono informato se tu non potresti ritornare a Milano, dove mi pare che avresti più risorse, e mi dissero che tu non saresti molestato. TI scrissi consigliandoti di venire qui, dove se tu sarai infelice, avrai pure qualche amico che mescerà qualche stilla di pianto col tuo. Ti credei quasi offeso di questo consiglio, più non vedendo tue lettere. Ora, perchè una signora Magiotti di Firenze mi scrive che tu ti lagni a lei di non avere più amici in Milano, nemmeno il tuo Silvio? Che posso io fare per te? Non ho mai sentito com’ora la mia povertà: essa mi toglie di dimostrarti in qualche modo il sommo amore che ho per te, amore che, prima di conoscerti, io già ti portava pel tuo ingegno e pel tuo cuore, e che non solo non è mai cessato un istante, ma che è più grande da che tu sei sventurato. L’ingiustizia della fortuna e la malignità dei più, rende talvolta ingiusto l’uomo oppresso; lo conosco e ti compiango. Ma perché non distinguere alcuno della moltitudine? Ricrediti. S’io ti scrissi di rado fu perchè tu pure mi scrivesti di rado, e spesso qui si sparse che eri in Francia o in Inghilterra o in Russia. Foss’io vilissimo, non potrei temer nulla corrispondendo con te.
[…]
Tu già ti rimproveri d’avermi sprezzato; – e forse non fu disprezzo il tuo. Tu nella mia indole silenziosa hai spesso distinto la sincerità delle mie opinioni e dei miei affetti: anche senza ch’io possa provartelo, tu devi credere ch’io t’amo immensamente, che ti stimo vittima della tua schietta onestà, che piango e m’adiro sul tuo destino.
Che fai? scrivimi liberamente, dimmi qual vita vivi; se in qualcosa posso giovarti, nè passi, nè voce, uniche mie sostanze, nulla risparmierò. T’abbraccio fremendo di pietà e di dolore; e sono il tuo Silvio.
Il 25 gennaio del 1816, Silvio si sfoga con Ugo della crudeltà dei milanesi che sembrano dileggiare il poeta proprio in un momento di massima difficoltà come quello dell’esilio.
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Sono malato d’una forte infiammazione di gola e ti scrivo dal letto.
[…]
Sono più giorni che dal mio letto vedo cadere giù la neve a gran fiocchi e penso con amore e compassione a te, povero Ugo, ed al tristo paese che abiti, ove l’intemperie sarà tanto maggiore che qua. Come vivi? v’è più ospitalità, più virtù in coteste montagne, sanno essi amarti ed apprezzarti cotesti Svizzeri, o vivi tu solo, afflitto e mal conosciuto?
Ho invidiato un tempo il tuo ingegno… ora piango di rabbia vedendoti così misero, così ingratamente ricompensato dalla fortuna. Beato l’uomo volgare, che non lottando mai contro alcun vento, dovunque si trova spinto, mangia e dorme e ringrazia Iddio dell’aria che respira! Spesso mi viene in dubbio se questa, alla fin de’ conti, non sia la vera filosofia, e aspiro con tutta l’anima a possederla. Ma una forza maggiore di me, non so se di natura o d’abitudine, mi muove a sdegno ogni volta che incontro uno di quegli egoisti, o automati o scellerati che sieno.
Credo virtù il reprimere a tempo le proprie passioni, ma stupidità ed infamia il ridere quand’altri vi flagella e vi sputa in faccia. Eppure di costoro che ridono sulle proprie sventure e su quelle dei loro fratelli, oggi in Milano ne vedresti di molti.
[…]
Non prosieguo, perchè sono di malo umore, e non ho una stilla di dolcezza nel cuore, da condire questa lettera. E tu, amico infelice, invece di consolazioni, non odi che lamenti d’ogni parte.
Addio. Aspetto dunque ciò che mi verrà scritto per la via di Firenze. T’abbraccio strettamente.
Più volte, come testimoniano anche le lettera del 20 marzo 1816 e del 6 aprile 1816, Pellico aveva espresso il desiderio di raggiungere Foscolo e di trascorrere gli anni dell’esilio insieme a lui, confermandogli al contempo la profonda amicizia che provava per lui.
20 marzo 1816
Qualche giorno prima, e io forse non sapeva resistere all’idea di fuggire questa terra infelice, all’idea sopratutto di far vita con te, di divider pene e piaceri coll’amico del mio cuore.
[…]
Tu, mio buon fratello, amami sempre e sii felice. La cieca sorte che ci disgiunge, ci riunirà forse per vivere insieme gli ultimi giorni e lasciare, come tu dici, le nostre ossa nel medesimo suolo. Amiamoci frattanto, che i nostri cuori certo si somigliano.
6 aprile 1816
Mio amico.
[…]
Addio, addio. Quando partirai? Ricordati sempre di me; ricordati che di tutti gli amici tuoi, io sono forse quello che più sinceramente darebbe per te l’anima sua.
Addio.
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Foscolo inizia a sentire il peso dello strazio causatogli dall’esilio, e confida a Silvio i suoi pensieri di morte. L’amico gli risponde il 10 aprile 1816.
Amico mio.
[…]
Non parlarmi della tua morte: tu mi trapassi l’anima…. Insomma, poichè hai steso lo sguardo fino al tuo sepolcro, ti parlerò del mio. Ordinerò le tue cose n modo che, s’io muoio, siano fatte consegnare dall’abate di Breme alla signora Magiotti di Firenze, che io credo, dal modo con cui mi scrisse, la tua migliore ed immutabile amica.
[…]
Addio, amico del mio cuore, mio Ugo, mio fratello. T’amo più che non potrò dimostrartelo mai. Sono malaticcio, ma la dieta mi va risanando: sta bene. Addio.
Ma Silvio si preoccupa anche della sua morte:
20 aprile 1816.
Amico.
Sono sempre malato. Questi polmoni sembrano stanchi di respirare. Vivi quieto per le tue carte che mi restano. S’io morrò, passeranno nelle mani di Lodovico di Breme in deposito, da cui la Quirina tua potrà riceverle.
[…]
Ho parlato a Dova; si mostrò lietissimo d’aver le tue nuove; mi disse che farebbe un miglio a piedi per abbracciarti, quantunque una gamba gli dolga moltissimo nel camminare.
E poco dopo, però, gli rimprovera (anche se con grande dolcezza) il suo silenzio:
8 maggio 1816.
Amico mio.
Non dirmi mai una parola, nè dei danari che ho consegnato al Porta per te, nè ora della spedizione che t’ho fatta da venti giorni dei manoscritti! Ti sgriderei, se non sapessi che nè anche a Firenze non giunsero per molti corrieri lettere tue. La signora Quirina mi scrive al fine che ne ha ricevute due in una volta; incolpo dunque la posta e non te. Prima di partire non vorrai tu dire addio all’amico tuo che ti segue coll’anima e col desiderio, e che ti ama come il più caro de’ suoi fratelli? So che il giovane greco che avevi in Firenze ti raggiungerà: beato lui, beato assai, s’egli ha un cuore simile al mio! Lo vedrò, lo abbraccerò e lo amerò, benchè invidiandolo.
E ancora, il 27 maggio 1816, Silvio conferma la sua vicinanza a Ugo e gli chiede di continuare a scrivergli:
Ugo mio.
Nella tua lettera del 18 mi accerti che prima di partire mi scriverai. Fallo, te ne scongiuro: i tuoi caratteri mi sono sempre stati cari; or che ti allontani vieppiù dall’Italia per ritornare (preso forse e lo speso) ma pur chi sa quando? – ogni linea da te scritta m’è sacra. – E sacra m’è, da questi tre giorni di conoscenza, la compagnia d’Andrea Calbo, a cui invidio di poterti rivedere e poi veder sempre e dividere tutta la tua fortuna. […] Avrei volto esser principe per festeggiarlo….. Dio m’ha fatto la grazia di volermi pitocco, perch’io fossi buon amico. Bisogna ringraziarlo delle gioie e delle tribolazioni ch’egli ci manda, dice la Chiesa; ed io lo ringrazio ad ogni modo d’avermi dato degli amici, benchè negandomi la facoltà di attestar loro la cordialità del mio affetto.
A partire dall’agosto 1818 il tono delle lettere cambia un po’. Foscolo si è trasferito in Inghilterra e Pellico inizia a temere che non potrà più fare ritorno in Italia.
Milano, 9 agosto 1818.
Foscolo mio.
[…] Oh! mio Ugo! Quante vole il penso a te con amore, e col desiderio di essere vito tuttora nel tuo cuore! Perchè non poss’io scriverti sovente? ma so quanto le poste sieno gravose in Inghilterra: e questa è potente ragione perchè io taccia e chiuda in me l’inutile brama che ho sempre di ridirti ch’io non dimentico la tua virtù, e che sempre ti terrò per l’uomo che più onora l’Italia.
Milano, 9 settembre 1818.
Mio Ugo.
[…] Or ti rinnovo le mie congratulazioni per lo stato comodo del quale so che finalmente godi. E meco si congratula un’altra persona che non vuole essere nominata, e da cui mi viene imposto mandarti i libri tuoi, ch’ella comprò per serbarteli. […]
Quando la tua mente esce d’Inghilterra e torna a scorrere la tua cara Italia, e vai facendo la rassegna dei cuori che qui ti amano, e che tu amasti, pensa, te ne prego, a me e pensami lungamente. T’abbraccio con tutta l’anima.
Milano, 17 ottobre 1818.
Mio amico.
[…] Onorato nel paese di Europa dove la dignità umana è più rispettata, abbastanza ricco per aver casa in città ed in campagna, un giardino delizioso, un cocchio, cavalli… padrone di stampare quel che t’aggrada, sicuro che nè il governo nè i librai ti strozzeranno, ma anzi premieranno secondo il valore le opere del tuo ingegno… La trista Italia non t’avrebbe mai offerto tanta fortuna; – e m0addolora il pensare che questa ragione ti terrà forte per tutta la vita lontano da noi. Ora ascolta un consiglio dell’amico tuo. Non essere così dimentico, come sei sempre stato, della tua pace avvenire; aduna un tesoretto per la vecchiaja, affinchè tu possa negli ultimi anni, se sentirai il bisogno di rivedere la patria, venirvi indipendente, senza necessità d nulla chiedere.
Milano, 5 novembre 1818.
Eccoti una lettera del tuo Silvio, il quale non passa mai un giorno senza pensare molto a te, e far voti perchè gli uomini e la fortuna ti arridano una volta. – E non dimenticarmi, te ne prego. Dopo Giulio tuo fratello, nessuno qui può vantarsi d’amarti quanto me. – Ma no: di un altro amico ti devo parlare, che però non vuol essere nominato. Questi comprava i tuoi libri per avere una ragione di mandarti qualche danaro che non ti obbligasse a ringraziamenti. Ora, tolto il suo nome, sono costretto di confidarti il secreto che tu non devi mostrare di sapere giammai; e riposo in ciò sulla tua delicatezza. – Io sono incaricato di spedirti a Londra tutt’i tuoi libri, senza che tu sappia d’onde vengano; ho voluto eseguire religiosamente la commissione; ma ho visto che invece di farti un gran regalo, ti farei spendere una grave somma per il porto, la quale ti amareggerebbe certamente siffatto piacere. Mi sono allora consigliato con Giulio, da cui venni pure convinto che tu non potresti essermi gradito, s’io seguissi alla cieca il desiderio dell’anonimo amico. S’io dunque rispondo a quest’amico che la spedizione dei libri non ti è benefizio, io tolgo ad esso il piacere di giovarti, ed a te ogni utile di sì fatta amicizia. Perciò, nell’intimo del cuor nostro, credo di non peccare domandando a te ciò che brami ch’io faccia di quei libri.
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Silvio purtroppo non riuscì ad assistere al ritorno di Foscolo in patria, dato che Ugo morì in Inghilterra nel 1827. Quasi trent’anni dopo invece a Pellico toccò la stessa sorte, dato che tra il 1821 e il 1830 fu imprigionato nella fortezza austriaca dello Spielberg.
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