Le radici profonde delle bugie. “Il Vangelo dei bugiardi” di Naomi Alderman
Ogni storia ha un autore, un narratore di bugie. Non dovete supporre nemmeno per un istante che esista un narratore imparziale, scrive Naomi Alderman nel suo volume Il Vangelo dei bugiardi (Nottetempo, traduzione di Silvia Bre), e questa frase è spiazzante, per chi si appresta a leggere il suo libro. Un testo che narra, tra l’altro, una fra le storie più difficili da raccontare: quella di Gesù di Nazareth. E si scopre, leggendo, che non è niente altro che una trama secondaria inserita in un contesto ben più ampio, quello dell’assedio di Gerusalemme da parte dell’Impero Romano, durante la guerra giudaica.
Una storia nella storia, quindi, che rivela il mistero più profondo sul quale si basa la cristianità, ma lo fa nel suo reale contesto storico e in un luogo, Gerusalemme, che era il centro di una fervente religiosità, l’ebraismo, nel Tempio, il Sancta Sanctorum, il luogo dove viveva Dio. Un libro che, già per le ambientazioni scelte, contiene punti di vista molto diversi, che l’autrice riesce a tenere insieme con una padronanza fuori dal comune.
Ma Il Vangelo dei bugiardi è soprattutto un romanzo, e come tale ha dei personaggi che lo rendono verosimile, in questo caso straordinario. L’autrice sceglie di raccontare la sua verità attraverso quattro protagonisti che hanno punti di vista differenti, quasi opposti: Maria (Myriam), madre di Gesù, Giuda il traditore (Iehuda di Qeriot), Caifa, il sommo sacerdote del Tempio, e Barabba (Bar-Avo) colui che è stato liberato al posto di Gesù.
Personaggi che sono già presenti nell’immaginario di tutti, ma che l’autrice riesce a tratteggiare in maniera inedita e potente, creando quasi degli archetipi.
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Maria, rappresenta la Madre, ma non come il cristianesimo ha abituato a vederla. La Myriam di Naomi Alderman è una donna ruvida, arrabbiata, lasciata dal marito e abbandonata dal suo adorato primogenito Yehoshua (Gesù) che ha preferito andarsene a predicare e inseguire utopie, invece di prendere moglie e dare a lei dei nipoti. Una Maria che non si arrende alla vita che incede e che non perdona il figlio, nemmeno quando ha saputo che è stato crocifisso.
«Avrebbe dovuto farlo allora, indurire il proprio cuore fino a farlo diventare di pietra. Avrebbe dovuto dire: “Mio figlio è morto,” e cominciare il suo lutto. Come se fosse possibile. Come se potessimo piangere una morte un momento prima che arrivi, come se potessimo affliggerci per una rovina prima che si verifichi. Anche se sapessimo con cento anni di anticipo che dovrà verificarsi. Nessun dolore può essere vissuto in anticipo – perché se potessimo proiettare in avanti il nostro dolore, non prenderemmo il lutto per un neonato nel giorno stesso della sua nascita? Lei dunque avrebbe dovuto iniziare il lutto per lui il giorno in cui venne al mondo.»
Caifa, il Cohen Gadol, il sommo sacerdote del grande Tempio di Gerusalemme, che rappresenta l’archetipo del potere religioso/politico. Caifa, in uno stato occupato dall’Impero Romano, cerca di mantenere le consuetudini ebraiche e di non tradire il proprio popolo ma, come uomo politico, è costretto a mediare con Pilato, per mantenere la pace, a volte a discapito della giustizia. Pilato, prefetto dei Romani, raffigura tutto ciò che è nuovo, la modernità che distoglie l’attenzione dalle tradizioni.
«Ogni uomo deve scegliere a cosa dedicare la propria vita e lui aveva scelto questo: soltanto la pace. Non la giustizia, perché pace e giustizia sono nemiche.»
Iehuda di Qeriot, (Giuda Iscariota) è ricordato, comunemente, come un traditore senza scrupoli. Nel romanzo, invece, ha una connotazione del tutto diversa; rappresenta la ricerca profonda del proprio sé interiore. Giuda e Gesù sono quasi intimi, parlano accanto al fuoco la sera, quando tutti gli altri dormono. Iehuda si sente profondamente ispirato Yehoshua, lo vede prima come suo amico, poi predicatore e poi come Colui da seguire, per il quale abbandonare tutto. Giuda si fida e si affida completamente a Gesù. Ma prima di arrivare tradirlo, si sente tradito proprio da lui, il maestro che avrebbe dovuto dare l’esempio. La lunga scena in cui l’autrice mostra Giuda che perde la sua fede si legge con il fiato sospeso dalla prima all’ultima riga, e riesce a smovere qualcosa nel profondo. Un attimo di vita così antico eppure riconducibile a molte situazioni moderne, dei giorni nostri. Quando si perde la fiducia in un amico, in un fratello, quando si perde la via e ci si ritrova faccia a faccia con i propri demoni interiori e la propria coscienza.
«Yehoshua rivolse gli occhi su di lui, quel suo sguardo abbagliante.
“Iehuda,” disse, scuotendo con tristezza il capo gocciolante, “Iehuda, perché insisti a vedere solo con gli occhi?” Io non lo faccio, voleva rispondere. Io ti vedo con il cuo- re, e tu mi hai condotto qui, in un luogo che io non comprendo. Iehuda aveva sentito dire: se i rabbini ti dicono che il giorno è notte e che la notte è giorno, credici. Pensava che forse un tempo era stato in grado di farlo. Non sapeva se era piú fortunato allora, quando ci riusciva, o adesso, che si accorgeva di non riuscirci piú.
Iehuda provò a farselo andare giú, come un coccodrillo del Nilo che ingoia un agnellino appena nato. Ma non ci riusciva a farlo scendere. Certe cose non possono essere giuste, non importa l’angolatura dalla quale le guardi.»
E poi c’è il personaggio forse più condannato dalla cristianità: Barabba. L’assassino il il cui nome, ancora oggi, solo a pronunciarlo, rappresenta un insulto. Il Bar-Avo de Il Vangelo dei bugiardi, invece, è tutt’altra cosa. Rappresenta la giovinezza, la voglia di vivere, la leadership.
Barabba, come Giuda, viene dipinto quasi come l’alter ego di Gesù. Questo libro spesso tenta di spiegare con la mente concetti che la mente stessa non è in grado di contenere. Nel caso di Giuda, il suo risveglio spirituale, infatti, non raggiunge mai l’illuminazione, ma rimane all’interno di una mente razionale: proprio per questo non riesce a comprendere fino in fondo la grandezza di spirito di Gesù, che parla, invece, come un’anima illuminata. Da questa dicotomia parte, infatti, il suo sentirsi tradito e il suo tradire.
Allo stesso modo, Barabba è la nemesi di Gesù. Lui rappresenta la parte terrena di Yehoshua, la ragione e la dualità dell’uomo. Bar-Avo combatte ogni giorno contro gli oppressori, per il pane quotidiano, per le sue tradizioni. Temi, oggigiorno, decisamente attuali.
Invece Gesù rappresenta lo spirito, quelle verità che la mente umana, legata al concetto di tempo finito e limitato, difficilmente comprende. Gesù viene condannato a morte, perché il messaggio che vuole trasmettere non si ottiene attraverso una lotta fisica o una rivoluzione, ma piuttosto attraverso una ribellione interiore individuale. La conversione non è mai di massa, sembra voler dire l’autrice fra le righe, ma riservata al singolo. Proprio per questi motivi il popolo, la massa, sceglie di assolvere Barabba. Anche lui, a sua volta, vuole liberare gli ebrei dagli invasori romani, il Tempio da coloro che non sono più degni di credere in Dio, ma invece di farlo dall’interno, partendo dall’interiorità, Barabba lo fa con il più razionale e terreno dei metodi: la rivoluzione.
Molto toccante la lunga sequenza in cui Barabba e Gesù s’incontrano da prigionieri, poco prima della crocifissione, proprio nel momento in cui i tratti umani di Yehoshua vengono abilmente raccontati dall’autrice, che dipinge un uomo terrorizzato da quello che gli accadrà.
«Bar-Avo ha un brivido. Ha formulato quello stesso pensiero, per conto suo, a tarda notte. Dov’è Dio in tutto questo? Mentre lui sta lottando per liberare il paese da Roma, mentre vuole vedere il sacro Tempio purificato dai loro corpi sudici, la loro presenza non è forse un segno che Dio ha voltato la faccia da un’altra parte? E se ha voltato la sua faccia da Gerusalemme, può significare soltanto una cosa.
“Sei un profeta?” Yehoshua sorride. “Non serve che io ti dica chi sono”. Si interrompe. “Non è un caso che tu e io ci troviamo insieme in questa cella”. Bar-Avo è combattuto. Ci sarà un migliaio di falsi profeti a Gerusalemme e lui non sa dire come mai quello lo colpisca così prepotentemente.»
Le voci di questi quattro punti di vista sono memorabili. Sono capaci di fare immergere il lettore in un tempo antico eppure moderno, e delineano un tratto di storia con la precisione di una cronaca ma con la passione del grande romanzo.
La storia più antica della terra, quella di Gesù di Nazareth e del destino di Gerusalemme, viene riscritta in maniera corale e dettagliata, avvincente e intima.
Yehoshua emerge come figlio, come predicatore, come pazzo, come amico, come uomo. Un ritratto che difficilmente si riuscirà a trovare altrove.
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Il Vangelo dei bugiardi è un libro da conservare e rileggere, che induce il lettore a pensare, un testo in cui verità e bugie s’incontrano a metà strada e dove l’autrice mostra, con delicatezza e forza, come spesso le stesse germoglino da una stessa radice.
Per la prima foto, copyright: Aaron Burden su Unsplash.
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