“Le otto montagne” di Paolo Cognetti, romanzo di formazione tra Twain, London e Stevenson
Mentre leggevo Le otto montagne di Paolo Cognetti (Einaudi) e mi imbattevo in nomi di monti, valli, massicci come Catinaccio, Sassolungo, Tofane, Marmolada, Macugnaga, Alagna, Ayas, Grana, iniziando a prendere confidenza con ghiacciai, camosci, stambecchi, notti in bivacco, cieli stellati e neve che cade fitta anche in agosto, mi ronzava nella testa una frase che ho letto parecchi anni fa in un racconto di Alice Munro. Non ricordo il titolo del racconto, ma la frase mi è rimasta appiccicata alle sinapsi come gomma da masticare: «Ci sono pochi luoghi in una vita, forse persino uno solo, in cui succede qualcosa; dopodiché ci sono tutti gli altri luoghi». Ecco, Paolo Cognetti uno dei suoi “pochi luoghi” l’ha trovato. Lo dimostra con la storia di Pietro, un ragazzino che scappa con i genitori da una Milano anni ’70 fatta di fiumi sotterranei (come l’Olona che ancora oggi scorre sotto i viali alberati del capoluogo lombardo) e fiumi di superficie «di auto, furgoni, motorini, camion, autobus, ambulanze […] sempre in piena» per rifugiarsi fra le montagne. Lì ognuno può tornare a essere se stesso o se non è ancora riuscito a trovarsi, come accade al protagonista del romanzo di Cognetti, non ha più scuse per sottrarsi alla ricerca.
In questo romanzo di formazione, sulle orme di Twain, London e Stevenson, Cognetti trasforma ogni arrampicata, passeggiata o “semplice” contemplazione del protagonista in un gate, un portale di passaggio fra il “fuori” e il “dentro”, dimostrando che l’immagine che abbiamo di noi stessi è spesso assai diversa dai bisogni che ci spingono a prendere le nostre decisioni. Nel paesino di 14 abitanti di Grana, dove la Natura regna incontrastata ignorando, alla maniera leopardiana, quelle piccole e petulanti formiche che chiamiamo uomini, Pietro scopre il valore dell’amicizia, trovando in Bruno il suo inseparabile compagno di avventure (come Huck e Jim sulla zattera di Mark Twain), impara a condividere momenti di silenziosa passione (come la lettura che fa con la madre rannicchiato davanti a una stufa di ghisa nera che «li ascolta»), prova in tutti i modi a comunicare con un padre che ha fatto del non doversi mai allineare con le idee altrui la sua trappola.
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Ogni scoperta di Pietro non è che un indizio di verità, che lascia intravedere solo arrampicate più estreme a cui abbandonarsi per fissare un altro chiodo nella parete di vita che ci è toccata. È lo stesso protagonista a dircelo parlando del rapporto con suo padre: «sembrava sempre che non potesse darmi la soluzione ma appena qualche indizio, e che alla verità dovessi per forza arrivarci da solo».
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Scritto con una prosa pulita e essenziale, come ci si aspetterebbe da un romanzo ambientato in luoghi aspri, Le otto montagne a volte pecca di autocompiacimento dell’autore che ha la montagna nel cuore e ritiene che ogni fenditura, bacca o valle, asperità dei luoghi o delle persone meriti una descrizione approfondita. Questa scelta rallenta il ritmo della narrazione, portando il lettore a saltare pagine per riannodare i fili della storia. Forse sarebbe bastato solo ridurre i momenti di contemplazione estatica della montagna, alcuni davvero ben scritti, per evitare di depotenziarne l’effetto. Lo stesso vale per i personaggi, su cui si ritorna a volte per ribadire una caratteristica o un comportamento che ormai sono già chiare al lettore e non necessitano di sottolineature.
Le otto montagne ha di certo il merito di aver ampliato i confini del romanzo italico a luoghi meno battuti dagli autori contemporanei, facendo della montagna e dei suoi silenzi un protagonista di molti testi futuri, visto anche il successo che il romanzo di Cognetti ha riscosso in Italia, ma soprattutto all’estero.
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