Le nuove regole di Stiglitz e la contemporaneità
Il recente lavoro di Stiglitz, Le nuove regole dell’economia, apparso per Il Saggiatore nella traduzione di Adele Oliveri e Stefano Spila, rappresenta un punto di arrivo, perché non mette semplicemente in discussione i mercati, come l’economista ci ha abituato a leggere, ma va oltre.
Rappresentando le origini della crisi come tutte interne alla disparità tra ricchi e poveri, l’autore torna a dividere la società globale in dominati e dominanti, se vogliamo in classi. Tutto parte da un assunto di fondo, dimostrato con esempi più che calzanti: la crisi esplode per eccesso di disuguaglianza ed eccesso di rapina finanziaria. Tanto è vero che proprio dove nasce, negli Usa, essa parte dall’indebitamento costruito sul bisogno di alloggi, di case. In sostanza, la legittima necessità di tutela e di welfare dei ceti medio-bassi americani divenne occasione di perdurante speculazione da parte dei mercati borsistici di Wall Street. Questa l’impronta cinica alla scaturigine della crisi, contro la quale l’indice accusatorio di Stiglitz si scaglia.
Come se ciò non fosse bastato, l’autore rintraccia nelle ricette successive all’esplosione globale della crisi il perdurare della stessa. La deregulation, per esempio, e cioè la fede nella mano invisibile dei mercati, ha portato i Paesi coinvolti a deregolamentare i mercati consentendo nuove speculazioni e favorendo l’impoverimento netto di centinaia di milioni di esseri umani.
Questo stato di crisi ha trovato perfino una valvola ideologica di sfogo nella costruzione di gabbie – apartheid – salariali fortemente discriminatorie: contro i migranti, contro le donne, contro i minori. Pezzi di realtà produttive globalizzate hanno cominciato a reintrodurre forme di sfruttamento, di superlavoro e di sottosalario che non si vedevano da un secolo. Tutto pur di mantenere ritmi di arricchimento immotivati sia sul piano economico, sia sul piano morale.
Questi aspetti tirano in ballo il vertiginoso impoverimento delle classi medie occidentali, la cui unica risorsa, il lavoro, non basta più.
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Dentro questo scenario, Stiglitz rintraccia nell’attuale difformità rispetto alle economie a trazione industriale la causa delle disuguaglianze più forti. Disuguaglianze che si sommano, per stratificazioni successive, ad altre che vengono da molto più lontano: la fame, le epidemie, i diritti.
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Per l’autore il miraggio cinico della ricchezza individuale include la ricerca della disuguaglianza portata fino all’estrema conseguenza della morte per miseria, fame, povertà e malattia. Questa estremizzazione è il movente della crisi del 2008 e il collante ideologico dei nuovi ceti dominanti. Ma tutto si tiene, fondamentalmente, sulla paura: la paura dei poveri di non farcela e la paura dei ricchi di perdere la ricchezza accumulata.
L’analisi tende a chiarire così certi aspetti della contemporaneità, come i fondamentalismi e la loro affermazione in Europa, che prima erano tenuti fuori dal discorso economico. Torna dunque centrale, nella riflessione dell’economista, la risorsa della regola economica come sintesi tra attività umana collettiva e aspirazione individuale misurata. Diventa, questa, una specie di ricetta per oltrepassare le colonne della crisi e gettarsi alle spalle la povertà dilagante nel pianeta. A partire dagli Usa, vero laboratorio delle peggiori politiche di risposta alla crisi e cartina di tornasole per la lettura delle disuguaglianze, per arrivare alle cosiddette economie emergenti, tutte dentro la crisi morale che si trasforma in massimizzazione delle povertà. Dunque un lavoro utilissimo, questo Le nuove regole dell’economia di Stiglitz, se si vuol cambiare direzione alla contemporaneità.
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