“Le nuove Eroidi”, la parola alle donne
Le nuove Eroidi sono otto scrittrici, otto donne, otto miti, otto voci per tutte le donne del passato, del presente e del futuro.
Le nuove Eroidi (HarperCollins Italia) è una raccolta di otto racconti, otto miti riscritti oggi da Caterina Bonvicini, Teresa Ciabatti, Antonella Lattanzi, Michela Murgia, Valeria Parrella, Veronica Raimo, Chiara Valerio.
Duemila anni fa Ovidio scriveva le Eroidi inaugurando il fortunato genere letterario della “raccolta di lettere d’amore” e sovvertendo l’ordine che aveva sempre visto gli uomini protagonisti e narratori delle vicende della vita.
Nelle Eroidi a parlare sono le donne: Didone, Fedra, Medea, Elena, Arianna, Laodamia, solo per citarne alcune. Le loro parole, i loro sentimenti e i loro pensieri sono riversati in bellissime lettere d’amore indirizzate ai loro innamorati. Cosa avrebbero voluto dirgli, cosa vorrebbero dirgli, cosa non sono riuscite a dirgli perché non avevano né la forza né la voce.
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Le nuove Eroidi una voce ce l’hanno, forte e chiara. Sono donne che non si lamentano più, che soffrono ma sono forti, che non cercano più di convincere i loro amanti a tornare ma, anzi, hanno capito che la vita continua lo stesso.
E così leggiamo la lettera lasciata in una camera d’albergo, scritta da una Didone che, abbandonata da Enea, accantona il pensiero del suicidio e sceglie di vivere, di bere un Bloody Mary, di farsi bella e di dimenticarlo per sempre.
Sono le parole cattive e crudeli di una donna ferita che probabilmente non supererà mai quell’abbandono, ma che almeno può sfogare in qualche modo il suo dolore, provare a convincersi che andrà avanti lo stesso. Un privilegio, questo, che la bella Didone del mito non ha potuto permettersi.
«E resterai per sempre nella storia ricordato come quello che se ne andò tutto triste a fondare un regno. Per due motivi: a) perché sei un uomo, e b) perché sei un debole. E un uomo debole è esattamente quello che gli dèi si aspettano per i loro capricci. Ma non voglio profetizzare nulla, vedrai da solo, vedrai da te.
Torniamo a me, che è discorso assai più interessante. Insomma, io gli uomini che già mi hanno dato tutto quello che mi potevano dare, me li scordo. E lo so, perché io so dove sto, so chi sono: sono donna, io, presente a me e al mio tempo. E tu, uomo debole, hai paura di tutta questa città attorno, da me creata, costruita, eretta, in cui mi chiamano maestà e regina. Io splendo troppo, Enea, tu scappi. Io sorgo, Enea.»
Se Didone è in una camera d’albergo, Fedra è in tribunale, insieme a Teseo e Ippolito, le loro foto sparse su Instagram e sui giornali, il caso che ha fatto scalpore.
La sua lettera è indirizzata ai figli, le sue parole sottolineano la cattiveria della gente che parla senza sapere, della gente che vuole vedere «il mostro», della gente che giudica, di chi sa tutto, «anche quello che non sappiamo noi».
Il mito dell’incesto, del presunto stupro, della rovina familiare di Fedra, della passione e dell’impulso viene così portato ai giorni nostri, la vicinanza è incredibile; un fatto “accaduto” più di duemila anni fa non è poi così diverso da quello che succede oggi e da quello che leggiamo sui giornali.
Leparole di Fedra ai figli sono piene di amore, sono le parole di una madre, una madre di duemila anni fa, una madre di oggi.
«Non abbiate timore di amare, ora che iniziate a conoscere la storia di vostra madre. Io ho amato con colpa. Voi, vi supplico, amate con furore.»
Le parole d’amore di Fedra sono le parole d’amore di Ero per Leandro, che sono tutte le parole d’amore di una donna innamorata che ha perso il suo uomo.
Così dal tribunale passiamo al Mediterraneo. Ero parla per tutti quelli che sono partiti e non sono mai arrivati, per tutti gli immigrati che hanno detto «scappiamo, via dalla guerra», che sono saliti su un barcone, che hanno sognato una terra da raggiungere, che hanno visto un mare da attraversare, e che sono morti annegati.
Ero è la voce di tutti gli uomini e tutte le donne che sono stati inghiottiti dal mare, dall’antichità fino a oggi, fino a poche ore fa, in questo preciso istante. Di chi si è sradicato dalla propria terra nella speranza di mettere radici da un’altra parte sperando nel meglio. Dei bambini sui gommoni, dei pianti e delle lacrime. Di tutti gli uomini e di tutte le donne di cui noi non sappiamo nulla, aspettati da nessuno, dimenticati.
«[…] e in tutte le altre notti senza stelle e senza luna e senza una terra, a dover morire per cercare di poter vivere. Mi chiedo che penitenza è questa, qual è il senso del mio dolore, della tua morte, della mia morte. A chi serve.»
Ancora dal mare proviene la voce di Penelope. «Ciao Ulisse, stavolta parto io». A bordo della Open Arms, una nave delle Ong in qualità di cuoca. Le paure sono tante, ma il vero terrore è uno: «Sarò all’altezza?» L’equipaggio e tutte le persone a bordo dipendono in qualche modo da lei: lei cucina, lei li deve sfamare, lei non può fallire. Esattamente come Ulisse aveva sentito il peso della responsabilità di riportare a casa, tutti vivi, i suoi compagni di viaggio. E come Ulisse aveva sentito il canto ammaliante delle sirene, l’unico canto che sente la novella Penelope è quello delle sirene degli altri barconi.
Così Penelope abbandona la sua tela per dedicarsi agli altri. È lei ad abbandonare casa e marito.
«La mia umanità è la mia tela di Penelope. Un continuo lavorio. Ma non in attesa tua, per fortuna. Ti ho. Non importa dove sei tu e dove sono io, siamo insieme comunque. Per amarsi davvero bisogna amarsi di vicinanza e di lontananza, e noi lo facciamo. So che non devo neanche scusarmi per quel messaggio di cinque parole. So che hai capito. Davanti a tutto questo, non potevi essere tu la mia priorità.»
Parlano ancora Medea, attraverso una dolorosa e-mail dalla quale emerge la voce di una donna e di una madre che ha dovuto soccombere alla cattiveria dell’uomo che amava e della gente, Laodamia, con i pochi sms hot scambiati dall’aldilà con il suo innamorato ormai morto, la triste Deianira e la bellissima Elena che cerca conferma, guardando il suo Paride addormentato, del fatto che lui si sia innamorato di lei non solo per la sua bellezza.
Sono le voci di donne fragili e insicure, che scivolano nel dubbio, nella ricerca di conferma, nel sesso, nell’insicurezza, nella solitudine. È la solitudine di una lettera che probabilmente non riceverà mai risposta, ma è la bellezza di una voce che si è finalmente levata e che ha infranto le barriere del giusto/sbagliato, del buonsenso, del rispetto, del buongusto, della passività, dell’inferiorità.
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Il mito è un linguaggio universale da sempre ripreso e rimaneggiato per essere adattato al presente. Perché nel passato è possibile trovare una risposta a cosa sta succedendo oggi, o se non una risposta, almeno una similitudine, a dirci che duemila anni fa le cose non erano molto diverse, ma anche a farci vedere quante cose sono cambiate, e quanti passi in avanti abbiamo fatto.
Le nuove Eroidi è la prova e il risultato di questi passi in avanti.
Per la prima foto, copyright: Ian Froome su Unsplash.
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