“Le luci nelle case degli altri” di Chiara Gamberale
“Le luci nelle case degli altri” di Chiara Gamberale (Mondadori)
Le luci nelle case degli altri sono segreti di famiglia, gesti proibiti, parole non dette. L’ombra che avvolge il privato s’illumina di uno sguardo inconsueto, estraneo eppure vicino. Viviamo tutti all’oscuro di qualcosa che ci riguarda.
Il titolo evocativo e la copertina delicata influenzano il primo approccio che ho con questo romanzo. Seguo l’istinto, mi lascio guidare dalla sensazione positiva che tenerlo tra le mani mi regala. L’aspettativa è alta. Le prime pagine scorrono un po’ a rilento, del resto bisogna conoscere i protagonisti, comprenderne le abitudini, sbirciare nel loro passato. Le parole camminano lungo le scale di un condominio di cinque piani, più un ex-lavatoio al sesto. Cinque famiglie, più o meno tradizionali, mescolano umori e dissapori in riunioni infinite, discusse con accorata partecipazione. Una bambina, orfana di madre e ignara del padre, s’infila nelle case degli altri, tra le stanze delle loro vite.
Mandorla, questo il suo nome, è figlia di Maria, l’amministratrice del condominio Poggio Ameno, via Grotta Perfetta 315. Sua madre è morta in sella al suo motorino, in un incidente stradale. La piccola transita così, di due anni in due anni, da un piano all’altro, da una famiglia all’altra. Ed è a questo punto, nel momento esatto in cui l’interminabile riunione nell’ex-lavatoio decreta il destino di Mandorla, che ho la sensazione di leggere una favola. Moderna, ma non troppo. Come ogni favola che si rispetti ci sono stereotipi funzionali alla narrazione, prevedibili e netti. La maestra anziana, zitella e senza affetti. La moglie in carriera, avvocatessa, e il marito sognatore, regista inespresso e un po’ fallito. Una coppia gay che, va da sé, partecipa al Gay Pride e frequenta Candy Candy, l’amico trans che di nome fa Alfredo. Due fidanzati, Lidia e Lorenzo, lei conduttrice radiofonica logorroica e incompresa, lui scrittore famoso, astratto, distaccato e cinico. E infine la famiglia modello, padre, madre, due figli – maschio e femmina. I Barilla, tipo Mulino Bianco.
La scrittura è marcatamente adolescenziale, con un slang che si trasforma spesso in acronimi, una su tutte ADME (Altri Della Mia Età). Le vicissitudini sono classiche. Mandorla ama perdutamente Matteo (Barilla), lui ama Eva (la più bella della classe), Mandorla allora si fidanza con Palomo (come Eduardo, il protagonista di “Cuore Selvaggio”) che la trascina in un vortice di disavventure emotive e materiali.
L’idea di fondo, tuttavia, è molto buona. Una bambina che viene adottata da tutto un condominio perché nessuno dei possibili padri ha il coraggio di farsi avanti. Vorrei che tuo papà fosse un astronauta che cammina sulla luna ma pensa sempre a noi, e non un uomo che abita in via Grotta Perfetta 315 e una sera di marzo, forse per noia forse per curiosità, nell’ex-lavatoio del sesto piano ha fatto l’amore con me. Scrive Maria alla sua piccola Mandorla appena nata. E così ha inizio una favola, con le regole e i crismi che ogni favola deve avere. Due o tre incongruenze, seppur visibili, passano via leggere.
Il finale, Porcomondo!, lascia l’amaro in bocca. Perché tutti amavano Maria, ma lei ne amava uno solo. E allora, quella sera di marzo, non c’erano noia e curiosità. Tutto ha avuto inizio da una lettera, perno focale dell’intera narrazione, e solo all’ultima pagina scopri che in realtà – forse – quella lettera era un piccolo trucco per intessere la trama successiva.
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