Le isole sconosciute di Raul Brandão
Nel libro As ilhas desconhecidas (Le isole sconosciute) lo scrittore portoghese Raul Brandão raccoglie le impressioni del suo viaggio alle isole Azzorre, compiuto all’incirca un secolo fa (era il lontano 1926) in parte in compagnia dell’amico e collega scrittore Vitorino Nemésio, originario dell’arcipelago. Quella che possiamo catalogare, non senza dubbi vista l’incertezza della definizione, come opera appartenente alla categoria “letteratura di viaggio”, è considerata tuttora e all’unanimità come un caposaldo della letteratura isolana, un punto cruciale per chi vuole entrare in contatto con la cultura del luogo. Come lo stesso Brandão premette, il libro «è fatto con note di viaggio, quasi senza ritocchi. Ho ampliato soltanto un quadro o l’altro, cercando sempre di non togliere la freschezza delle prime impressioni. Non potendo dipingere a parole alcuni dei luoghi più pittoreschi delle isole, suscito nei lettori il desiderio di vederli con i propri occhi!...». E in effetti le “pennellate” di Brandão sono veri e propri colpi da maestro, pagine ispirate che attivano tutti i sensi del lettore, catapultato di repente attraverso la stimolante riattivazione dell’immaginario, in pieno Atlantico.
Per raggiungere l’arcipelago, lo scrittore impiega all’incirca una settimana a bordo di una nave a vapore partita da Lisbona. La prima isola che visita è Corvo, la più piccola (diciassette chilometri quadrati) e la più remota, abitata da nemmeno seicento persone. L’impatto è scioccante e lo scrittore ce lo restituisce in quello che è sicuramente il capitolo più bello e intenso del libro: «Osservo questo mondo tanto povero e tanto modesto, […] osservo esseri e cose dallo stesso tono spento e uniforme; osservo l’isola scalfita dal vento, un vento tanto forte d’inverno da far rintoccare la campana da sola, e mi sento come non mi sono sentito mai, isolato dal mondo. Che cosa sono venuto a fare io qui? È stato questo scoglio sperduto nel mezzo del mare con un qualche essere disperatamente aggrappato ai suoi campi che mi ha trascinato fin qui?».
Spaesato e spaventato, Brandão entra in violento contatto con un mondo che pare ubicato fuori dal tempo, in cui la vita dura e severa degli abitanti risponde alle leggi di una natura meravigliosa ma non così amica. «Qui terminano le parole, qui termina il mondo che conosco; qui, in questo tremendo isolamento dove la vita artificiale è ridotta al minimo, solo le cose eterne si mantengono»: solo la nera pietra vulcanica, solo il ribattere asfissiante delle onde sulle rocce, solo l’interminabile corteo di nuvole umide, solo l’instancabile corsa del vento (definito il potente padrone del mondo) rimangono le costanti di un’esistenza ridotta al minimo, arcaica e austera. Elementi-materia eterni, come gli abitanti stessi: «guardo quelle mani enormi e dure appoggiate ai vincastri, quelle barbe di legno, quelle fisionomie incomplete, e scopro dietro di loro uno scultore geniale che non è riuscito a finirle e ho come l’idea di averle già viste tutte negli altari o nei presepi. Appartengono a un’altra era. Sembrano, per la staticità, animate da sentimenti e idee al di fuori del nostro ambiente. Formatesi poco a poco con la solitudine e il silenzio».
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Lo scrittore prova un senso di timore di fronte a queste “figure” umane che sembrano indirettamente accusarlo – ma è lui che si autoaccusa – di frivolezza, intarsiato com’è di futilità lontana dalle esigenze concrete della sopravvivenza. Niente pièce di teatro, niente libri dalle belle copertine, l’esistenza è secca ed essenziale, e passa per le «mani enormi e spaccate, mani di terra, mani enormi e spaccate, mani di terra quasi disumane» come una fedele testimonianza. Non si può fuggire dalla monotonia, dalla solitudine, dalla salda architettura delle colline che racchiudono e comprimono. Eppure è proprio in questo abisso esistenziale che l’uomo ritrova quell’innato senso comunitario che lo lega indissolubilmente agli altri uomini. A Corvo il più ricco cammina scalzo come il più povero. Di notte non c’è alcun disgraziato senza un rifugio («in verità non ho visto né straccioni né miseria»). Nessuno chiede l’elemosina. Se uno si ammala, gli altri gli coltivano le terre. Il maggior coltivatore raccoglie centottanta moggi di granturco, il più piccolo quaranta. Corvo è una «Democrazia Cristiana di agricoltori».
L’isola che apre il libro è l’emblema delle Azzorre: in essa si concentrano e si accentuano tutte le caratteristiche che a grandi linee si trovano anche sulle altre isole. Brandão è ossessionato dalla luce («la luce è la mia vita, il mondo non esiste senza luce»), eppure la luce dell’arcipelago gli mette angoscia. È pura, schietta, illumina l’essenza delle cose, le taglia violentemente: vita basica, senso di sopravvivenza, lotta contro l’isolamento, lotta contro il vento, il tempo. Talmente chiara da creare disagio nell’animo dello scrittore, abituato alla luce opaca della sua terra e della sua vita comoda. «Corvo non ha peso nel mondo, ma mai ho sentito come qui la realtà e il peso del Tempo». In questo spazio fuori dal mondo, arrivano dritti come schiaffi quesiti esistenziali troppo a lungo soffocati da una condizione da privilegiati che rende l’esistenza nient’altro che una grassa commedia. Lì, uomini uniti contro il fardello del vivere sono i protagonisti di una tragedia densa di senso che inscena con dignità gli atti della vita. «Finalmente ora so cos’ha Corvo di importante: non sono i costumi sobri […] qui ho sempre presente l’idea di dio e l’idea della morte e vedo il tempo misurare nella clessidra la vita che passa minuto per minuto». Gente abituata a morire, che si allena a farlo per tutto l’arco del proprio tempo, includendo il concetto di morte all’interno di quello stesso di vita, senza considerarlo antitetico. Ecco cosa spaventa Brandão e insieme lo attira; il suo desidero di fuggire dalle isole è la sua volontà di scappare dalla morte e dal suo io primitivo per ritornare alle sue certezze, in quello spazio frivolo e inconsistente dove la morte è costantemente celata come un segreto. Il suo viaggio è una sorta di discesa negli inferi in cui impara il duro mestiere dell’essere, e ne è assolutamente terrorizzato. Ha visto la morte in faccia, o meglio in tutte le facce degli isolani, e non la può sostenere. Dice: «in verità io non potrei mai vivere come questi uomini»; eppure, e il passo è cruciale, «nell’ora della morte vorrei essere uno di loro».
Tutto questo appartiene al 1926, quasi un secolo fa. Cosa sono oggi le isole Azzorre? Cosa rimane del viaggio di Brandão? Il Grande Mondo, a spasso sulle ali larghe della globalizzazione tecnologica, è naturalmente arrivato anche lì. E ci arriverà sempre di più, dal momento in cui da pochi mesi sono state aperte le tratte aeree low-cost. L’inaccessibilità formatrice e costituente si è fatta easy-to-go, la solitudine diventa social. In realtà è una buona notizia per tutti, il mondo ha bisogno di comunicare. Comunicare e spostarsi come un elettrone impazzito: anche le isole si fanno indaffarate, corrono dietro a quell’orda di turisti che arrivano carichi di grano già maturo – soldi – e possono godere finalmente della frivolezza dell’esistenza. La morte si stacca dalla vita come una foglia secca e si rintana negli oscuri meandri dell’oblio. Le isole sconosciute di Raul Brandão escono allo scoperto e il vento soffia impotente.
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