Le infinite contraddizioni di una città malgovernata. “Roma non è eterna” di Christian Raimo
Christian Raimo è molte cose insieme: scrittore, insegnante, giornalista. È diventato assessore alla cultura del terzo municipio di Roma (che comprende Montesacro) con l’elezione dell’esponente di sinistra Giovanni Caudo; da poche settimane è uscito una sorta di reportage sulla città dal titolo Roma non è eterna. Vita, morte e bellezza di una città (lo pubblica Chiarelettere).
È una ricognizione molto ben documentata delle continue contraddizioni di questa città, sfiancata dall’incuria dell’incompetenza e del dilettantismo. La cosa più triste leggendo il libro – ma noi che viviamo qui lo sappiamo bene – è che la capitale è stata e viene ancora spolpata per biechi interessi privati. L’interesse collettivo, il bene comune, è invece sempre più emarginato sotto i colpi della proprietà privata che a forza di parole d’ordine vuote, come degrado e pulizia, cerca di porre la questione in un altro modo. Perché la questione è che se non hai i soldi in questa città, come in tutte le città del mondo purtroppo, non riesci a fare una vita decente. Per vita decente intendo non soltanto avere un lavoro dignitoso, ma anche tutti quei servizi di welfare e culturali che potrebbero permettere alle persone di vivere in modo umano (non è certo umano pagare biglietti spropositati per vedere un concerto di Bob Dylan a Caracalla, ad esempio). Roma si è costruita e sta continuando a farlo sulla disorganizzazione urbanistica:
«Dove finisce Roma? Oltre il Raccordo, la cintura urbana, lo sprawl, l’area metropolitana, i comuni toccati dalle linee ferroviarie dei pendolari: fin dove arriva questa città diluita? Ma il trucco non vale nemmeno per quello che c’è dentro il raccordo. Roma è una città a metà, sfilacciata, anomica. Le zone edificate si alternato a immense distese di verde non organizzato, antimoderno: radure, campagna e addirittura bosco.»
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Una delle emergenze croniche di Roma è quella dei rifiuti, e proprio in questo mese ne stiamo vivendo un’altra. La città ha visto chiudere nel Lazio un altro stabilimento per il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti e c’è il solito balletto di responsabilità tra Comune e Regione (con Zingaretti che ha minacciato di nominare un commissario se il Comune non dovesse intervenire). Quando si parla di rifiuti a Roma c’è un nome che fa tremare i polsi: Malagrotta. Raimo è riuscito perfino a entravi dentro nel 2003, grazie a una vigilanza assente:
«Enormi dune piatte giallognole composte di spazzatura e ricoperte di terra, illuminate da una grassa luce lunare. La puzza era letteralmente mortale… Era un labirinto senza indicazioni in mezzo a una landa che sembrava sconfinata… a un certo punto l’assedio di miasmi aggressivi era comunque penetrato dentro l’abitacolo fino praticamente a stonarmi, mi sentivo male da svenire, avevo le vertigini, e solo dopo almeno mezz’ora riuscii a fatica a riguadagnare l’uscita. E lì ci trovammo davanti qualcosa a cui solo poco prima non avevo fatto caso. C’era un’area slargata che si interrompeva su un burrone. Questa fossa nella terra era la cava dove i camion senza interruzione si svuotavano della spazzatura raccolta.»
Malagrotta, scrive Raimo, è stata una sorta di Dorian Gray per Roma, sotto il dominio del proprietario, l’ultranovantenne, oggi, Manlio Cerroni; ha funzionato da luogo civile fino a quando il trucco ha retto, poi dopo, naturalmente, si è cominciato a parlare di emergenza rifiuti.Un’emergenza che Virginia Raggi non ha fatto il minimo sforzo per risolvere, anzi. Sappiamo come il Movimento avesse, anche a livello nazionale, puntato decisamente sui temi della transizione ecologica. Ad oggi sono mutati tre assessori ai Rifiuti e sei direttori/presidenti/ad di Ama e la raccolta differenziata rimane stabile rispetto a quella della giunta precedente, il 43%, una delle più basse d’Italia. Ci sono stati casi drammatici, come il Tmb della Salaria che per un decennio ha avvelenato le zone circostanti (nel 2018 subisce un incendio, a simboleggiare il disastro cittadino sulla questione della mondezza e finalmente chiude):
«I rifiuti sono davvero il campo da gioco fondamentale per le amministrazioni comunali dei prossimi anni. Ma nonostante valgano un miliardo l’anno, nessuno ha la fregola di occuparsene sul serio. Ogni mese che passa, aumentano i danni dell’inerzia e il lancinante bisogno di politica.»
Nel libro Raimo parla dello sgombero fatto da ingenti forze dell’ordine al Centro sociale La Torre nel 1995, situato nella vecchia villa del gerarca Farinacci. Lo scrittore stava cercando di ritornare nella casa dei genitori dove abitava e per fare prima cercava una scorciatoia nel parco vicino il centro; venne bloccato da una squadra di poliziotti che gli chiesero i documenti e poi gli fecero aprire lo zaino dove teneva una serie di testi per preparare l’esame di filosofia teoretica all’università. Raimo viene lasciato andare, ma non gli va che gli rifilino uno sputo da dietro: viene preso e portato al commissariato. La macchina della polizia per strada incrocia il padre dello scrittore:
«Si fermano, e mio padre comincia ad attaccargli una paternale, giustamente. È sempre così lui: cerca di essere persuasivo con la dialettica. Gli spiega che non possono tenere sotto scacco un quartiere intero in questo modo, che lui deve tornare a casa e ha già buttato via mezz’ora, che suo figlio (io) ha un esame tra qualche giorno e mi stanno facendo perdere. I poliziotti lo ascoltano e balbettano che non è colpa loro, devono portarmi al commissariato. Mio padre sbuffa e li guarda con pena.»
Raimo racconta poi di molti altri sgomberi che si sono succeduti nella storia recente di Roma e che hanno lasciato insoluto il problema che dovevano in origine risolvere (l’ultimo in ordine di tempo quello del cinema Palazzo a San Lorenzo). Le politiche abitative per chi è povero o indigente non esistono a Roma, come in tutte le città del mondo e la pandemia ci ha mostrato come la situazione volgerà al peggio. Comunque, tutti gli sgomberi, se non sono seguiti da politiche consapevoli, aggraveranno soltanto la situazione socio-politica e culturale della città. C’è quasi il terrore che queste autogestioni possano creare un modello alternativo a quello neoliberista oramai vincente il quale «soprattutto non considera la diseguaglianza un disvalore, anzi».
Le giunte del Centro-sinistra, prima Rutelli e poi Veltroni, non hanno mai tentato di modificare la subordinazione del comune ai palazzinari che hanno continuato a costruire senza che la popolazione romana crescesse così tanto negli ultimi decenni. Le case ci sono, fin troppe, «mancano i servizi, le infrastrutture, i trasporti». Mancano tutti quei servizi che rendono meno gravosa una vita, perché una casa da sola non può bastare (e nemmeno un’automobile). Raimocita Walter Tocci, il vice-sindaco della giunta Rutelli, che scrive:
«Sono state chiamate centralità ma sono grumi di palazzine addossate ai grandi centri commerciali, sconnesse dalla città e accessibili soltanto con l’automobile.»
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Ci vuole una risposta politica consapevole, dice Raimo, che prende a modello Renato Nicolini, l’unico politico a cui ha dato il suo voto in piena consapevolezza quando nel 1993 si presentò alle elezioni a sindaco di Roma. Nicolini è stato l’assessore alla cultura della giunta Petroselli, quella dell’estate romana e del cinema a Massenzio. Un uomo che ha sempre avuto a cuore un disegno complessivo della città, un disegno che concretizzò nell’ultimo articolo scritto e pubblicato su «Il Manifesto» nel 2012 (morì pochi mesi dopo per un tumore, pur avendo scelto un’altra volta di candidarsi a sindaco):
«Due concetti erano alla base dell’idea per Roma di Petroselli. L’importanza della cultura, della risorsa immateriale per eccellenza, per il governo della città... L’autonomia della cultura, in un mondo sempre più servile ed eterodiretto, è un valore inestimabile, e a Roma c’è ancora cinema, teatro, televisione, arte, produzione di immaginario più che in qualsiasi altra parte d’Italia. Il secondo concetto è la necessità di rompere con un’idea che associava invece la crescita economica di Roma soprattutto all’edilizia, tradizionale volano... C’è necessità di restituire regole e possibilità di controllo a ciò che è stato incautamente liberalizzato a partire da Rutelli finendo per trasformare la zona più delicata di Roma, il suo centro storico, in uno shopping mall a cielo aperto. Occorre recuperare in ogni direzione la capacità di progetto.»
Recuperare la capacità di progetto, scriveva, inascoltato, quasi dieci anni fa Nicolini. A pochi mesi dalle nuove elezioni mancano in modo lancinante dei candidati preparati al compito che li attende, capaci di avere una capacità di progetto credibile e consapevole, che abbia veramente a cuore la cosa pubblica.
Per la prima foto, copyright: BENCE BOROS su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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