“Le fragili attese” di Mattia Signorini: un romanzo corale
È un romanzo corale la nuova fatica di Mattia Signorini Le fragili attese, uscito in libreria per i tipi di Marsilio lo scorso aprile. Il giovane scrittore rodigino, classe 1980, ha scelto di raccontare la storia della pensione Palomar, un vecchio stabile a due piani in un quartiere periferico di Milano. O meglio, ha scelto di raccontare la storia di Italo, il suo proprietario, che a quasi ottant’anni ha deciso di chiudere l’attività, e dei suoi ultimi ospiti. L’idea di fondo ci è parsa quella di costruire per gradi i personaggi e le loro esistenze all’interno di una cornice immutata nel corso del tempo; la periferia è stata inglobata dallo sviluppo tentacolare della metropoli, che l’ha trasformata in un vasto dormitorio, ma la piccola macchia di muffa in un angolo della stanza che occupava Italo nel 1952, quando acquisì la pensione Palomar dal precedente gestore, è sempre la stessa, così come il suo allargarsi verso l’alto, «come il sentore di un’attesa».
Italo aveva percepito dentro di sé che quello era il suo posto nel mondo. Lo stato di degrado della pensione rifletteva il suo senso di non appartenenza, era il luogo ideale per leccarsi le ferite ancora aperte e sanguinanti, per seppellire il proprio dolore come uno scrigno di vetro sotto la sabbia. Era nato nel Polesine, Italo, una disperata striscia di povertà che dai confini della provincia di Ferrara attraversa Rovigo e si allarga fino al mare. Dopo la scomparsa precoce dei suoi genitori e di un fratello ritardato aveva perduto, in seguito, anche l’amore della sua vita, la sorella del suo amico Smith, per la quale avrebbe smosso le montagne. Ma nulla poté fare Italo, contro il grande fiume che uscì dagli argini, nel 1951, e costrinse molti come lui a lasciare quelle zone nello sfacelo e cercare altrove un lavoro che consentisse loro una sopravvivenza, sia pur minima.
Ora, a pochi giorni dalla chiusura della pensione, Italo si trova suo malgrado, seduto dietro al bancone, a tracciare un bilancio della sua vita. Quarantasei anni di silenzi e di attese. Da una scatola da scarpe spuntano delle vecchie lettere d’amore, scritte da una donna, a partire dal 1957. Sono indirizzate a lui, a Italo, ma non le ha mai ricevute. Sono firmate S., ma quante donne ha conosciuto, nel corso degli anni, che iniziavano per S? Di chi poteva trattarsi? Il cervello inizia a macinare ricordi, a elaborare ipotesi. Ma nel frattempo bisogna prendersi cura degli ospiti della pensione, in questa atmosfera di smobilitazione. C’è Guido, per esempio, un insegnante d’inglese che ha perduto la sua cattedra per una vicenda incresciosa, arrivato in città in seguito a una singolare proposta di lavoro: insegnare a Penelope, una bambina diventata muta dopo un terribile trauma, a riacquistare la favella. La storia di Guido si incrocia – pure grazie alla letteratura: lui ha una predilezione per W.B. Yeats, lei per i racconti di Salinger – con Ingrid, una musicista, un’arpista col polso spezzato che lavora di giorno in un supermercato, come cassiera, e la notte si concede a degli sconosciuti, per anestetizzare il proprio disagio in uno spersonalizzante “incontro di solitudini”. C’è il generale in pensione Adolfo Trento, irrimediabilmente segnato, anche nel fisico, dalla guerra e dal suo passato di combattente. La sua storia è per certi versi speculare a quella di Lucio Ormea, un uomo alla ricerca del padre, che non vede da quando era molto piccolo. Il generale è stato invece allontanato dalla sua famiglia, alla quale ha anteposto i suoi doveri e il suo ruolo nel conflitto, e non ha più rivisto i suoi figli. Infine c’è Emma, la domestica che, dopo aver perduto il suo precedente lavoro, ha finito per fare della pensione la sua casa, ormai da lungo tempo.
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Cos’hanno in comune tutti questi personaggi? Il fatto di essere sospesi in una sorta di limbo. A ogni personaggio l’esistenza ha inferto una ferita profonda, esitata in una cicatrice perenne dell’anima, irreversibile. Insanabile. «Si attende che la vita faccia un passo e la pianti di stare in bilico, pericolante su se stessa. Si attende che qualcuno, o qualcosa, che prenda tutti i silenzi e lasciandoli cadere, quasi per sbaglio, li mandi in frantumi».
La consapevolezza di una privazione che non può essere colmata, l’avvertire la propria inadeguatezza rispetto ai differenti contesti coi quali si viene a contatto, il nascondere le proprie fragilità e il proprio dolore nell’ubriacatura quotidiana del “fare”, opponendo il proprio silenzio agli altri silenzi, è la cifra di uno spleen che attraversa tutti i cantori di questa polifonia ch’è Le fragili attese. È come se questi personaggi avessero perduto la loro propulsione, il motore che li sospingeva attraverso i percorsi rizomatici del vivere, e attendessero un qualche evento risolutore, qualcosa che venga a sparigliare le carte, a sottrarli dal torpore di un dolore ingannato e mai risolto col ricorso a blandi antidolorifici dello spirito, fosse anche l’accostarsi, sia pur con diffidenza – per Ingrid – alla possibilità rassicurante di un conforto nella religione. In questo pencolare immobile, con la vita sospesa nel vuoto, gli anni passano e ci si scopre vecchi. Solo un evento esterno e forse casuale potrebbe invertire la rotta, compensare una frazione del male di vivere che li ha scollati dal tessuto delle relazioni umane, o annientarli del tutto.
La scrittura dell’autore, che è già al quarto libro, procede lieve e diretta, priva di fronzoli o indulgenze, pure nella descrizione degli aspetti più deteriori e umbratili di alcuni personaggi. Lo stile è improntato a un realismo malinconico, quasi felliniano, a una dolce nostalgia per un mondo in via di estinzione, specie nei passaggi che descrivono le realtà delle campagne sugli argini del Po, che ci ha fatto tornare alla mente pellicole come Notte italiana (1987) di Carlo Mazzacurati, o i racconti de Il coccodrillo sull’altare (Guanda, 1998) di Guido Conti. Intrigante è anche il ricorso al registro surreale nell’episodio, virato in soggettiva, dove la piccola Penelope decide di allontanarsi da sola dalla sua abitazione. La tessitura polifonica non sempre riesce agevole e nelle 252 pagine del romanzo si prova quasi il rimpianto di aver lasciato nell’ombra tante altre storie, episodi, aneddoti di personaggi che avremmo voluto seguire o conoscere meglio, come il maggiordomo Pier, custode di Penelope, o la domestica Emma, o il padre di Lucio Ormea. Lo scioglimento del romanzo acuisce nel lettore, ancor di più, questa sensazione di irrisolto, di ulteriore sfilacciamento e nebulizzazione, come se l’autore stesso, una volta esplorato l’animo delle sue creature, avesse concluso che il loro disorientamento, le loro reticenze e i loro silenzi non avrebbero potuto dargli ulteriore materia da raccontare. Così è la vita, verrebbe da chiosare con brutale semplicità, un compendio di desideri, di progetti e aspirazioni che in tanti casi non si concretizzeranno mai, come ne Le fragili attese, il bello e delicato romanzo corale di Mattia Signorini.
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