Le forme infinite della strategia della tensione, “Le venti giornate di Torino” di Giorgio De Maria
È bella e inusuale la storia editoriale de Le venti giornate di Torino di Giorgio De Maria, appena ripubblicato da Frassinelli. Il libro era uscito quarant’anni fa, nel 1977, dalle edizioni del Formichiere. De Maria è stato un figura eclettica, forse troppo eclettica, della paludata cultura italiana: musicologo, scrittore, critico teatrale, pianista. Nel 1957 aveva fondato con altri artisti e intellettuali, tra cui anche Italo Calvino, il gruppo musicale d’avanguardia dei Cantacronache, una delle prime esperienze della musica d’autore italiana, sulla scia degli chansonnier francesi. È morto nel 2009 nella più totale indifferenza.
Le venti giornate di Torino è stato improvvisamente riscoperto negli Stati Uniti, da una delle più importanti case editrici d’Oltreoceano: Norton & Company (l’unico italiano in catalogo, prima di De Maria, è stato Primo Levi).Tra i motivi di questo rinnovato interesse ci sono quelle atmosfere che rimandano a Poe e Lovecraft, o alla tradizione gotica (senza l’aggiunta però dei fantasmi). Ma c’è ovviamente dell’altro. C’è la visione quasi profetica degli anni, dei decenni a venire, con la presa d’atto di quali e quante siano le forme di condizionamento che impediscono la piena e cosciente autodeterminazione dell’uomo (forme molto spesso subdole che nascondono la loro reale pericolosità alla vista più superficiale).
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Il titolo del romanzo immagina una vicenda accaduta dieci anni prima, una vicenda oggetto di una specie d’inchiesta giornalistica: Torino allora venne colpita da una serie di morti inspiegabili. Erano giorni quelli in cui la città piemontese era alle prese con un’inquietante epidemia d’insonnia a cui si accompagnava anche l’improvvisa siccità che stava assetando il territorio circostante. Uomini e donne che non riuscivano a dormire si trovavano a girovagare per le strade e le piazze del centro di Torino, piene di monumenti e statue della tradizione sabauda. Molte di queste persone venivano trovate morte, come se fossero state colpite o scagliate via da “entità” che avevano una forza fuori dal comune. A quel tempo la città sabauda era già preda di un soffio spettrale:
«Ricordo benissimo l’atmosfera di “morte” che regnava… Il collasso delle sue industrie. L’esodo degli immigrati verso le loro terre, anche perché risparmiate dalla tremenda siccità che aveva colpito tutto l’arco alpino. I treni stracolmi che partivano da Porta Nuova diretti verso il meridione per ritornare semivuoti… Il ritrovarci, quasi d’un tratto, ripiombati nella purezza autoctona – un evento sia pure da molti auspicato con acre spirito campanilistico – aveva finito per creare un generale senso di smarrimento».
Il senso di vuoto, di un deserto che avanza (con la tremenda penuria d’acqua che l’accompagna) tornerà spesso in questo romanzo sulfureo e apocalittico che mette alla berlina molte delle “cineserie” sabaude.
Alcuni articoli usciti di recente sulla ricomparsa editoriale de Le venti giornate hanno evidenziato una delle più geniali trovate del libro: la descrizione di una particolarissima Biblioteca (localizzata in uno dei locali della Piccola Casa della Divina Provvidenza, più comunemente detta “il Cottolengo”, la struttura che accoglie chi ha deficit fisici e mentali). Una Biblioteca dove le persone potevano depositare le proprie scritture oppure leggere quelle degli altri: documenti veri, autentici nei quali, molto spesso, uomini e donne condividevano i loro aspetti più intimi e segreti. Una specie di “sfogatoio” cartaceo che sembra prefigurare, in anticipo di trent’anni, quello virtuale di Facebook: «Non vi è da stupirsi che un’istituzione come la Biblioteca avesse trovato spazio per proliferare. Si presentava come un’opera buona, nata apposta per indurre gli uomini ad aprirsi l’un l’altro». Gli ideatori dell’iniziativa erano «giovanotti ben pettinati e ben vestiti, senza traccia di peluria sui volti sempre rosei e sorridenti» (sembrerebbe la descrizione fedele di quei “bravi ragazzi” di destra della strage del Circeo).
Ma quest’opera buona era forse soltanto un modo per controllare il prossimo, per carpirne i più insondabili desideri, i più inconfessabili piaceri. Come raccontava il sindaco Bonfante (un affettuoso ritratto di Diego Novelli, sindaco comunista di Torino dal 1975 al 1985) la Biblioteca era in fin dei conti «un bacino di scarico dove ognuno poteva rovesciare ciò che voleva, tutta la poltiglia che teneva dentro». Insomma, un immondezzaio da cui non poteva nascere nulla di buono. Ma che collegamento poteva avere la Biblioteca con quella serie di morti inspiegabili?
È un romanzo claustrofobico quello di De Maria che descrive molto bene gli anni più cupi della “strategia della tensione”: nel libro si parla di improvvise esplosioni, di urla disumane che squarciano l’aria, di mostri “sbattuti in prima pagina” soltanto per sviare l’attenzione dalla verità, di paura e di forze oscure e innominabili. Forze che sembrano scomparse, ma solo apparentemente…
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Mi sento di paragonare questo libro a un disco uscito anch’esso nel 1977, e che meriterebbe ben altra attenzione a distanza di anni: Disoccupate le strade dai sogni di Claudio Lolli. Lolli e De Maria avevano già capito allora che ogni più piccolo spazio “resistenziale” stava per essere sbriciolato, a forza di bombe, da poteri malvagi e senza scrupoli che avrebbero imposto “la loro idea di democrazia”, fondata esclusivamente sulla legge del mercato. Un imprenditore lombardo che si faceva ritrarre in foto con una pistola sulla scrivania aveva intanto appena costruito Milano2, il laboratorio della futura nazione italiana. Il PCI si sarebbe suicidato da solo grazie ai suoi volenterosi dirigenti di partito, così differenti dal sindaco Bonfante/Novelli. Le strade tra poco sarebbero state finalmente deserte, vuote. Franz Kafka scrisse in una pagina dei suoi diari questa frase misteriosa: «Non andare a Torino. Per nessun motivo».
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