Le fedeltà ai principî. "I padri e i vinti" di Giovanni Mastrangelo
La corsa mozzafiato della società italiana dagli anni del secondo dopoguerra fino alla fine del Novecento è fotogrammata tra le pagine de I padri e i vinti di Giovanni Mastrangelo per La Nave di Teseo, casa editrice che con grande merito ha pubblicato non solo quest’ultimo romanzo dell’autore (parte, insieme a Il sistema di Gordon, di una tetralogia in fase di costruzione), ma anche ripubblicato alcune sue opere precedenti.
Nella citazione tratta da 2066 di Roberto Bolaño e messa in esergo, è racchiuso il senso completo del libro di Mastrangelo: il generale rumeno Eugenio Entrescu, crocifisso dai suoi stessi soldati nel 1944 durante la ritirata dalla campagna di Russia, per lo scrittore cileno è un tiranno senza possibilità di perdono e un dio da cui affrancarsi. Allo stesso modo, i personaggi della saga familiare che compone I padri e i vinti cercano di emancipare le loro vite da tre grandi àmbiti di costrizione universale: lo Stato, la Chiesa e la Famiglia ai quali, con il passaggio di secolo e la globalizzazione, si aggiungerà il Mercato.
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È affascinante e tortuoso ma molto limpido, nelle sue forme di espressione, il percorso che i personaggi tratteggiati da Mastrangelo seguono per approdare a nuove formule di vita, nate dalle loro stesse cellule ma rigenerate e ricomposte ogni volta che la relazione con gli altri e con la collettività si trasforma per adattarsi al mutare di ciò che accade nel mondo. «Fuori dove?» è la domanda ricorrente di questo libro, che sottolinea come ogni individuo esista solo in relazione con gli altri, in un continuo lavorio fisico e mentale.
Il libro prende avvio nell’aprile del 1945, sulle orme di un gruppo di partigiani nascosti sulle prealpi bergamasche, e di una borghese famiglia di sfollati di Milano, che apparentemente non ha nulla in comune con i partigiani ma che con loro stipulerà a bruciapelo un patto di sangue: un patto silenzioso, anzi, taciuto, che cambierà per sempre il corso e la portata degli eventi. È lunga la carrellata dei personaggi che sfilano sotto gli occhi del lettore: il ragionier Pietro Cristaldi, «un fascista – deluso forse, ma pur sempre un fascista come la maggioranza degli italiani solo fino a qualche anno prima»; sua moglie Flora, per la quale essere fascista non è stata una scelta ma «una conseguenza naturale delle cose», e incarna la società patriarcale delle «madri di famiglia», le donne per le quali a decidere sono il marito e il Duce, e «così deve essere»; Carmela, la ricca bottegaia del paese; Marina, la venditrice di legna, maga o strega; Bortolo, accusato di essere una spia fascista. E i figli e nipoti di tutti loro, che trascinano sulle spalle lo stesso grande problema di coscienza dei genitori: «la fedeltà ai principî».
Di quanto fosse sfilacciata la corda che ha tenuto insieme le anime del Paese nel secondo dopoguerra i romanzi, forse, non hanno raccontato abbastanza. Gli Anni di Piombo e l’eroina, intrecciati nello stesso flusso sanguineo; la sconfitta dell’ideale fascista e borghese di futuro, di quel «trionfo culturale oltre che sociale della nuova borghesia. Così si forma una nazione»; la rassegnazione all’imperversare del caso, che domina la vita dell’uomo. Con tutto ciò si misurano i personaggi di Mastrangelo, in un furibondo corpo a corpo che spesso si scioglie in tenerezza, mediato dalla seduzione di cui solo l’essere umano è capace e che supera ogni ideologia, sbriciola la politica, fa sfumare la religione. I protagonisti di questa storia spariscono spesso, lasciando il lettore sul bordo dell’irritazione, per poi ricomparire quando davvero c’è bisogno di loro anche solo per averli accanto in silenzio, e non è facile che una scrittura renda con tanta purezza il non detto e lo trasformi in confortante presenza fisica. C’è molto spazio per la mitologia, in questa storia, forse perché solo un carattere e una proporzione leggendaria del personaggio possono riempire certi vuoti. E, al tempo stesso, c’è spazio per la scienza, la biologia, per il rimestarsi delle cellule tra loro a formare l’unità: due falde perfettamente simmetriche che, con testardaggine a volte crudele, la famiglia Cristaldi s’impegna a mantenere unite come territorio del proprio esistere.
Il motore dei quattro decenni di storia personale e nazionale che il libro attraversa hanno come collante la paura come modo di sentirsi vivi. Vera, la figura femminile che impregna di sè e della propria assenza ogni riga, odia la paura degli uomini che la circondano, che siano il padre, il fratello, il compagno partigiano, un amante. Sarà lei a spingere tutti gli altri a balzare fuori dalla paura, a capire che la paura è una forma d’ansia che, se la si capovolge, diventa speranza: «Prima di proiettarsi fuori da noi e trasformarsi in desiderio o in bisogno di qualcuno o di qualcosa, la speranza è in origine un impulso che esiste in natura e non appartiene soltanto agli esseri umani». In bilico tra il mito e la ferocia, Vera saprà regalare ai genitori, in un atto d’amore che sgomenta, la possibilità più grande: riparare agli errori e non sentirsi più individualmente responsabili del passato; riacciuffare la speranza. «Speranza è senso di futuro, futuro collettivo», ma è anche perdonarsi, e «non c’è differenza tra perdonare e pentirsi».
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La speranza prende corpo in Antonio facendosi spazio a colpi di dolore; vivrà sei vite diverse sotto uno stesso nome, tre nel mondo di fuori e tre nel proprio intimo, ma sarà l’ultima a prendere il sopravvento. Dovrà avvicinarsi alla croce del generale Entrescu, come fecero i suoi soldati, per capire se riuscirà a superare la menzogna e il tradimento in cui crede di aver vissuto per tanti anni; oppure se quel dio nudo, arreso e appeso, quella madre che piange ai suoi piedi dalle unghie sporche, non gli stiano invece annunciando che finalmente può scegliersi la vita da solo.
Sull’opportunità o meno di conoscere i segreti altrui che condizionano la nostra esistenza in maniera indelebile Javier Marías ha scritto molto, ma Giovanni Mastrangelo riformula le regole del duello tra sentimenti contrastanti, tra idea di resistenza e capacità di perdonare, e la estende a I padri e i vinti, perché la conciliazione appartenga davvero di tutti, per sempre.
Per la prima foto, la fonte è qui.
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