Le donne e la loro verità. “Happy hour” di Mary Miller
Puntata n. 18 della rubrica La bellezza nascosta
«Sono invidiosa (adesso lei ha un bicchiere pieno di grosse olive verdi trafitte da piccole spade) ma non trovo il coraggio di chiedere anche se l’hostess è proprio qui davanti a me, pronta a servirmi. Mi sforzo di ricordare quando è stata l’ultima volta che ho preso le mie medicine e mi domando se sto così perché non le ho prese.»
In una società frenetica dove chi cerca una sosta per riprendere fiato resta irrimediabilmente indietro, per provare ad assorbire tutti gli input dai quali veniamo bombardati, siamo spesso costretti a osservarci come fossimo altre persone; a volte, si instaura una sorta di depersonalizzazione, ci capita di osservarci da fuori, dall’alto, dal basso, da lontano, delle volte diventiamo il nostro occhio destro, la nostra mano tremante, il nostro petto che fa fatica a raccogliere il fiato.
Il sociologo polacco Bauman ha raccontato questo mondo in cui viviamo, definendolo liquido; come se tutto scorresse e fluisse in maniera continua, senza argini, senza dighe, e tutto quello che possiamo fare per non affogare è tentare la minor resistenza possibile, e accomodarci alla potenza del fiume che ci trascina. Liquida è la tecnologia, con la sua dose massiccia di pressioni e liquidi sono i social, luoghi in cui si annullano le distanze e si creano immense pressioni.
La paura, forza primordiale e necessaria, entra così a far parte delle nostre vite, in maniera costante, inficiandole e scorticandole, innaturalmente.
E si entra nella decadenza, nel decadimento dei rapporti di coppia, della caduta perfetta della donna che da vittima diventa carnefice e ancora vittima; e dell’uomo che da salvatore diventa salvato o oggetto da usare, scarnificare e cestinare. E molti incontri, molto sesso, diventano un accoppiamento tra la mantide religiosa ed il suo maschio.
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Mary Miller è nata a Jackson (USA) nel 1977, Happy hour è la sua raccolta di racconti pubblicati in Italia dalla casa editrice Black coffee, nella traduzione di Sara Reggiani.
Nei sui racconti, la scrittrice americana ci narra di donne, dei loro tormenti, della loro materia fragile ma al contempo dura come il guscio di una testuggine; ci porta negli interstizi dei rapporti di coppia, delle scopate occasionali, dei tradimenti virtuali e quelli invece fatti di carne. Quindi le donne e le loro scelte, il loro bisogno di comprensione ricercato sempre nei luoghi oscuri, le donne nel momento sempre sbagliato di un incontro, uomini che amano poco quando loro vorrebbero essere venerate e uomini che amano troppo quando loro vorrebbero essere lasciate nella loro condizione di freezer. Miller ci porta in squallidi bar, bettole, camere d’albergo; ci conduce sulla pelle dei suoi protagonisti, nella puzza di sudore dopo ore di sesso. L’amore degli ultimi, o dei primi che ultimi si sentono ugualmente, le cattive abitudini e gli amori quotidiani, delle giornate passate nella noia, amori che si prendono per mano già sapendo che la tragedia finale li aspetta lì a due passi.
«Si addormenta aggrappato alla sua gamba, risvegliandosi ogni tanto solo per restituirle un bacio dato per noia. Finito il film si alza e torna in libreria. “Non mi va di vedere niente di quello che abbiamo” dice. Si toglie la camicia, ha il ventre gonfio e duro. Lei ancora aspetta che perda peso, ma al massimo perde un grammo ogni tanto; sarà pure povero, ma in casa non manca mai da mangiare. – Quanti preservativi ci restano? Chiede lei anche e sa già che la risposta è uno. Hanno cinque sigarette, due lattine di Four Loko e una bottiglia di whisky che non toccano mai.»
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La maniera di scrivere che possiede Mary Miller è molto lineare, spesso sembriamo trovarci davanti a una cronaca semplice e pulita; la scrittrice non perde tempo a farci ingurgitare metafore e figure allegoriche, arriva sempre al punto, al nocciolo, provando a prendere ogni frase e a consumarla per farci arrivare solo l’osso.
«Apro gli occhi e so già che fuori c’è il sole. È una giornata perfetta per andare al fiume, ma non mi va per niente. Non mi va nemmeno di alzarmi da letto. Mi manca il mio ex, penso, e mi sembra plausibile, anche se di ex ormai ne ho così tanti che non sono sicura di quale mi manchi. Ultimamente sono indietro di uno, cioè smetto di sentire la mancanza dell’ultimo ragazzo con cui sono stata solo quando quello attuale diventa ex, e poi inizia a mancarmi anche lui e finisce che non mi godo mai il ragazzo con cui sto. Sarà per questo che mi lasciano tutti.»
Ogni racconto ci mostra la donna da un’angolatura differente, dipingendone tratti peculiari e ossessioni, nevrosi e irragionevolezza, sofferenze volute come bulimie.
«La catenina non si rompe e sono sollevata. Nei film tutti lanciano le fedi nel mare e i cellulari fuori dal finestrino, ma io non ho mai sentito nessuno che l’abbia fatto nella vita vera; nella vita vera ti tieni strette le cose che hai perché sai quanto ti costerebbe rimpiazzarle.»
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La vita reale, quella dove i sentimenti si mischiano scostumati in una poltiglia di indifferenza, è quando invece lasci andare le barriere, e ti avvolgi nel nastro sconsiderato della dipendenza, ogni spostamento, ogni movimento si trascina dietro un rivolo di paura, una goccia di angoscia; si instilla dentro la consapevolezza che dopo, quel dopo che arriva sulla linea della fine, ogni cosa, colore, sapore, odore sarà forzatamente diverso, diverso tendente verso il basso.
Calvino nel suo libro Le città invisibili ci dice questo: l’inferno è già qui. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Dare spazio, dare respiro, respirare dalla stessa bocca.
Per la prima foto, copyright: Luke Porter.
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