Le domande salveranno il mondo. “Sogniamo più forte della paura” di Saverio Tommasi
Le parole interrogative, quelle a forma di domande, sono un’espressione linguistica in via d’estinzione. In particolar modo lo sono quelle che riguardano il mondo che ci circonda, in cui ci muoviamo e relazioniamo, gli uni con gli altri. Dimenticandoci che, nel momento in cui cessiamo di interrogarci e di mettere in dubbio tutte le ipotesi e le asserzioni che ci vengono propinate ogni giorno, rinunciamo all’opportunità di riparare i pezzi malconci della nostra realtà. E alla possibilità di cambiarla in meglio, evitandole regressioni sociali, culturali ed economiche.
È una creatura in crisi l’universo in cui viviamo adesso. Abita un corpo che mostra segni di cedimento e di resa che, in molti, si rifiutano di riconoscere. E, come un genitore di fronte a un figlio che lo disprezza, si trascina dietro un cuore deluso: la Natura ha ferite ovunque, da cui sgorgano smog, rifiuti inquinanti, sostanze tossiche e cemento. Non solo, la sua mente è impaurita da tutto ciò a cui assiste: la diffusione, tra gli individui, del germe dell’indifferenza, sia verso l’ambiente circostante, sia verso i propri simili, i loro sentimenti, le loro parole, le loro azioni.
Una coltre di rassegnazione li avvolge, impedendo loro di prendere coscienza della deriva a cui la società sta andando incontro, inesorabilmente. Eppure, c’è chi resiste all’epidemia dell’omologazione, ribellandosi a una “dittatura della perfezione” che mira a demonizzare l’autonomia di pensiero e a enfatizzare l’uniformità dei corpi, dei gesti, dei linguaggi. La stessa che punta a crescere persone culturalmente passive, apatiche, insofferenti alle fragilità, alle sofferenze e alle imperfezioni. Alle sconfitte e alla diversità.
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Una resistenza che non ha bisogno di gesti eclatanti, né di figure eroiche, né di un’oratoria complessa. Così come ci dimostra Saverio Tommasi nel suo ultimo romanzo Sogniamo più forte della paura (Sperling & Kupfer, 2018). Ingannando i lettori con una copertina che richiama i prodotti editoriali destinati ai più piccoli, il giornalista e scrittore fiorentino ci regala una storia che profuma di speranza e desideri, due fiori che sbocciano in mezzo a un campo contaminato dalla corruzione, dagli scarichi industriali, dall’egoismo e dall’assenza di empatia.
Una realtà quindi che è solo in apparenza frutto della fantasia dell’autore e che invece si rivela, grazie alle lunghe metafore che attraversano le pagine del libro, il riflesso di ciò che viviamo ogni giorno.
A cominciare dal luogo in cui la protagonista, Filadelfia, una sedicenne bullizzata per la sua alta statura e per il suo seno poco sviluppato, si è trasferita a causa dei problemi di salute del nonno Esterino, altro personaggio centrale del racconto.
«Sono timida e preferisco stare di lato perché forse non mi notano, e se non mi notano non mi prendono in giro.»
A fare da sfondo alle giornate di questa adolescente e della sua famiglia è la città di Spinazzola, di cui non viene fornita un’esatta collocazione geografica, perché potrebbe essere un piccolo borgo del Sud Italia, come un grande comune del Nord o perfino una qualsiasi metropoli di un altro Paese: attraversata da un fiume infestato da scarichi e rifiuti, è la perfetta raffigurazione dei colpi inferti alla Natura dalle attività umane e dell’atmosfera di terrore che, da tempo, aleggia ovunque. Una dilagante sensazione di paura che ha condotto le persone a ripiegarsi su stesse, a risparmiare sulle parole che sono alla base della buona educazione e a lasciarsi travolgere dai ritmi frenetici della modernità, rendendo brevissimi i processi e gli articoli della Costituzione.
«[…] Il mondo negli ultimi anni si era molto ristretto. Le persone viaggiavano poco, la vendita di atlanti si era ridotta al minimo e le agenzie di viaggio erano fallite quasi tutte.
Le persone non si allontanavano da casa loro, e ancora di più stavano dentro casa loro. Prima per paura, poi per abitudine.»
Filadelfia si sente estranea a quella società in cui la “cura” dell’altro e la gentilezza sono state rimpiazzate dai sentimenti di prevaricazione, dall’ossessione dell’apparire a tutti i costi e dall’incapacità di captare i bisogni dei più deboli. Quest’ultimi sono ben rappresentati da Mario, il compagno di scuola di Filadelfia, un ragazzo disabile con cui instaura un’amicizia, che sa di primo amore. Nei loro sguardi, nelle loro conversazioni e nei loro gesti si percepisce l’autenticità di un legame che ammonisce il lettore: spesso la felicità si nasconde tra i meandri delle cose semplici, come un abbraccio, una passeggiata o la condivisione di una preoccupazione, o di un timore.
Una serie di personaggi e di circostanze inoltre accentuano il suo senso di estraneità: un padre assente e anaffettivo; l’imprenditore senza scrupoli “Ilvo” – il nome non è frutto di una scelta casuale – che indossa sempre una mascherina per proteggersi dagli stessi fumi emanati dalla sua azienda, leader nella produzione di mine antiuomo e nel garantire agli operai spazi di lavoro inclusivi di letti e bagni; l’insegnante “Generalessa” e il Preside della scuola, che dovrebbero costituire un punto di riferimento per i loro alunni e che invece, fin da subito, svelano un carattere corruttibile e propenso a mettersi al servizio del potere; la demonizzazione crescente e legalizzata della povertà attraverso l’emarginazione fisica di un gruppo di cittadini, che occupano dei treni malandati e abbandonati sulla riva opposta del fiume.
Da questa paura della realtà circostante, che allo stesso tempo la rigetta per la sua “diversità”, Filadelfia trova rifugio nel rapporto intessuto con il nonno Esterino, un uomo profondamente legato al ricordo della moglie defunta e fervente partigiano. Una figura adulta che manifesta, senza remore, la sua ostilità verso l’imprenditore locale Ilvo, esponendosi a ritorsioni e minacce. Il simbolo di quella lotta per i sogni indispensabile alla salvezza di un mondo claudicante, il rappresentante di quella categoria di persone che formula delle domande e risponde a chi le pone, di chi è pronto a cambiare opinione e ad approfondire la conoscenza dell’altro, facendone una vera e propria filosofia di vita che trasmette a sua nipote Filadelfia.
«Perché volevo lasciare libero il tuo sguardo, senza confonderlo con il mio […] Bisogna infatti sempre vedere le cose con la propria prospettiva, ma poi saperla cambiare prima di giudicare.»
Un pilastro della crescita umana di questa adolescente che, di fronte alla scomparsa misteriosa del nonno, è chiamata a mettere in pratica quegli stessi insegnamenti, provando, sulla propria pelle, il significato dell’amicizia, dei legami familiari e il valore di tutti gli ideali che sono stati sotterrati.
Filadelfia, insieme a suo nonno, a sua madre, all’amico Mario e ad altre figure che le ruotano attorno, è quella fetta della realtà che resiste, con i suoi dubbi e con l’accettazione della sua “unicità”, che non si arrende alle storture del sistema, alla piaga dell’insensibilità dispensata come un valore funzionale al successo, all’odio espresso attraverso il web, all’attitudine diffusa di beffarsi delle peculiarità fisiche delle persone e perfino delle disabilità.
Una storia che si legge tutta d’un fiato, grazie all’uso delle parole: la semplicità fa da padrona nel suo linguaggio, ma ciò non toglie valore al messaggio di cui tutta la narrazione è intrisa. Una lezione di vita che non ha mai i tratti di un “sermone”, ma che l’autore ha l’abilità di lasciar trapelare anche attraverso le varie situazioni comiche che si avvicendano e che ci offrono sempre uno spunto di riflessione.
In alcuni passaggi sembra di essere catapultati in un mondo fantastico, ciò che lascia sospettare un’influenza dell’opera di Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie, ma la presenza costante di elementi reali funge da faro per il lettore, insinuandogli il sospetto che tutto ciò a cui sta assistendo gli sia molto familiare.
Le duecentodiciannove pagine abbondano di rimandi all’attualità e i dialoghi, le situazioni descritte, i vari protagonisti, pur essendo a tratti caricaturali, sono portatori di un invito a riflettere su ciò che abbiamo davanti agli occhi e che rischia di sfuggirci di mano se non ne prendiamo coscienza. Se non ci riappropriamo dello sguardo indagatore caratteristico dell’infanzia.
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Sono infatti pieni di curiosità gli occhi dei più piccoli. Lo si intuisce già nei primi mesi di vita quando sono attratti da tutto: le luci, i volti, i suoni, i colori. Un interesse che esplode non appena hanno la possibilità di tramutarla in parola, prima, e poi di mettere insieme quegli stessi termini, formulando frasi, esclamazioni e domande. “Perché…?”, chiedono spesso i bambini, impazienti di entrare in possesso di tutte quelle conoscenze di cui noi adulti siamo già entrati in possesso e che diamo per scontate. Eppure, quelle domande sono preziose perché sono la spia di un cuore in allerta, di uno sguardo che osserva, di un animo che si interroga su ciò che sia giusto o sbagliato, sul bene e sul male.
Se si smette di interrogarsi, ci si assuefà all’orrore, ai diritti calpestati, all’intolleranza crescente, costruendo una società sterile di punti interrogativi. Si finisce per voltare la testa dall’altra parte, nella convinzione che una determinata questione non ci tocchi. Ma tutto ciò che accade agli altri riguarda in qualche modo anche noi. Prenderne coscienza è già un modo di ribellarsi all’indifferenza, che scava lentamente dei solchi dentro di noi. E tra noi, componenti della stessa comunità, trovando terreno fertile nel momento in cui ci coglie sprovvisti di curiosità, di dubbi, del desiderio di conoscere e informarsi. Di tutto ciò che costituisce l’embrione delle domande che, da sempre, hanno indotto l’uomo a una ricerca costante del nuovo, del miglioramento e del cambiamento. Quelle che, spesso, hanno permesso all’umanità di salvare se stessa e il mondo dal baratro.
«Non ci sono domande stupide, ci sono solo possibili risposte deficienti.»
Per la prima foto, copyright: Kevin Grieve su Unsplash.
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